Dopo il fallimento della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP27) , si è tenuta dal 7 al 19 dicembre in Canada la COP15, conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sulla protezione della natura e degli ecosistemi.
La conferenza si è chiusa con un accordo, trovato dopo 15 giorni di lavori, cosi definito:Entro il 2030 almeno il 30% delle aree terrestri,
delle acque interne e delle aree costiere e marine, in particolare le aree di particolare importanza per la biodiversità e gli ecosistemi, devono essere conservate.
Ora la domanda è: come si possono conciliare le misure di conservazione con gli altri usi del territorio che siano coerenti con i risultati della conservazione, riconoscendo e rispettando i diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali, anche sui loro territori tradizionali? Sul punto richiamiamo l’intervento di Gianfranco Laccone, “La difesa del suolo, bene comune, una priorità?” in questo blog.
L’accordo non è stato sottoscritto, però, da Congo e Uganda che reclamano un fondo dedicato ai Paesi meno sviluppati né da Stati Uniti e Vaticano che non hanno ratificato la Convenzione sulla diversità biologica nonostante che -si legge nel documento finale- “circa il 25% delle specie nei gruppi animali e vegetali valutati è minacciata, circa 1 milione di specie sono già a rischio di estinzione, molte entro decenni, a meno che non vengano intraprese azioni per rallentare la perdita di biodiversità. La biosfera, da cui dipende l’umanità nel suo insieme viene alterata a un livello senza precedenti”.
Tanti commentatori definiscono quello raggiunto un accordo storico che comunque, allo stato, storico o meno, rappresenta un evidente passo in avanti nella protezione delle terre e degli oceani del mondo nonostante manchino ancora progetti significativi per salvare la biodiversità nei paesi in via di sviluppo.
Federica Rochira Website Founder