Papa Francesco ha posto il problema delle
diseguaglianze sociali alla base della questione climatica.
Oggi scienziati e ricercatori confermano laicamente l’affermazione.

 

Fino ad oggi, tranne rare eccezioni, era stato solo Papa Francesco a porre in straordinaria interdipendenza la questione climatica con la questione sociale. Nell’Enciclica Laudato Sii, del 2015, la salvaguardia dell’ambiente è collegata alla giustizia verso i poveri e alla soluzione dei problemi di un’economia che persegue soltanto il profitto. Le tre questioni, per Francesco, non possono essere disgiunte e, infatti, il tema ambientale viene trattato in un contesto più ampio, quello della dottrina sociale della Chiesa. Oggi sono sempre più numerosi gli studi e le ricerche che confermano, laicamente, la premessa teleologica fortemente preoccupata della dimensione morale dell’ecologia.

Il 1° febbraio scorso, è stato pubblicato il “Climate Inequality Report 2023” del World Inequality Lab (un Centro di Ricerca, con sede a Parigi, che riunisce scienziati sociali impegnati ad aiutare tutti a comprendere i fattori della disuguaglianza in tutto il mondo e che ha creato un ampio database pubblico sulle dinamiche globali della disuguaglianza). Il rapporto esplora la relazione tra disuguaglianza e clima adottando un approccio empirico per documentare le diverse impronte climatiche di ricchi e poveri e le differenze nel modo in cui sono influenzati dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. La relazione indica che: le differenze nelle emissioni di gas climatico sono straordinariamente elevate, non solo tra i paesi, ma in misura ancora maggiore all’interno di ogni nazione; la metà più povera della popolazione mondiale che possiede solo il due per cento della ricchezza mondiale, è responsabile solo del 12 per cento delle emissioni, ma subisce il 75 per cento delle perdite; il 10% più ricco è responsabile del 48% delle emissioni, ma subisce solo il tre percento delle perdite.

Sempre il 1° febbraio scorso, il Cluster of Excellence Climate, Climatic Change and Society (CLICCS) dell’Universität Hamburg, ha pubblicato un suo nuovo studio, “La plausibilità di un limite di 1,5 ° C al riscaldamento globale – driver sociali e processi fisici”, nel quale si sostiene che il cambiamento sociale è più importante dei punti di non ritorno fisici.  Il cambiamento sociale è essenziale per raggiungere gli obiettivi di temperatura fissati a Parigi. Ma ciò che è stato realizzato finora è insufficiente. Di conseguenza, anche l’adattamento climatico dovrà essere affrontato da una nuova prospettiva. Afferma la prof.ssa Anita Engels, portavoce del CLICCS: ”In particolare i modelli di consumo e le risposte delle imprese stanno rallentando le misure di protezione del clima urgentemente necessarie. Altri fattori chiave come la politica climatica delle Nazioni Unite, la legislazione, le proteste climatiche e il disinvestimento dai combustibili fossili stanno sostenendo gli sforzi per raggiungere gli obiettivi climatici. Come mostra l’analisi, tuttavia, questa dinamica positiva da sola non sarà sufficiente per rimanere entro il limite di 1,5 gradi. La profonda decarbonizzazione richiesta sta semplicemente progredendo troppo lentamente”, conclude la Engels.

I riferimenti dei ricercatori francesi e tedeschi sono sin troppo espliciti. Gli studi citati dimostrano come i paesi in via di sviluppo abbiano solo una responsabilità marginale per i cambiamenti climatici e siano solo in piccola parte in grado di finanziare le spese legate al clima. Ragione per la quale va sostenuta con forza l’intensificazione dei finanziamenti internazionali per il clima. Anche con l’adozione di una serie di importanti iniziative, in particolare fiscali, sia a livello globale che nazionale. Gli impegni per la decarbonizzazione devono partire necessariamente da obblighi per ridurre le diseguaglianze sociali. Le emissioni di popolazioni e paesi poveri non possono essere confrontate con quelle di popoli e paesi ricchi. La lotta per il Clima deve essere sempre di più, lotta alla povertà perché, non va dimenticato, è solo il 10% della popolazione mondiale più ricca a rilasciare emissioni climalteranti pari al

50% del totale e il 50% più povero rilascia solo il 10% delle emissioni. Un solo esempio chiarirà meglio i concetti: nel Bangladesh ci sono cicloni sempre più frequenti, inondazioni, raccolti e allevamenti spazzati via, abitazioni distrutte, carestie per l’effetto devastante del cambiamento climatico. Secondo il rapporto della Banca Mondiale, “Turn Down the Heat: Climate Extremes, Regional Impacts, and the Case for Resilience”, 40 milioni di persone in Bangladesh entro il 2050 perderebbero i loro mezzi di sussistenza e 30 milioni sarebbero sfollati all’interno del paese o emigrati. Andrebbero a incrementare il numero dei rifugiati ambientali già ampiamente presenti nelle nostre baraccopoli urbane, a seguito di annuali inondazioni ed erosione degli argini.  Questo aggraverebbe le condizioni di vita mettendo completamente in crisi infrastrutture urbane e servizi fino a costituire una minaccia esistenziale. Eppure, il Bangladesh, con i suoi quasi 170 milioni di abitanti, è responsabile di una quota irrilevante di emissioni di gas serra visto che la media delle emissioni annue pro capite nel paese è intorno a 200 kg (l’Italia è a 9 tonnellate).

 

Alla luce di queste considerazioni, non possiamo che ribadire quanto abbiamo già scritto a proposito del fallimento della Cop27: l’assenza di paesi grandi inquinatori come Russia, Cina e India, da una parte e il mancato raggiungimento di un accordo per aiutare finanziariamente i paesi poveri ad affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici, dall’altra, dimostrano quanto lunga sia ancora la strada per arrivare ad una decarbonizzazione concreta nell’intero pianeta. Ma confermano anche il motto, tratto da un’intervista di Jeremy Rifkin, che abbiamo posto in calce all’immagine di copertina di questo blog: “Gli accordi sull’ambiente non bastano, la vera rivoluzione arriverà dal basso”.

Giuseppe d’Ippolito, Website Founder

 

APPROFONDIMENTI

L’Enciclica Laudato Sii
Il Climate Inequality Report 2023

Lo studio dell’Universität Hamburg