La siccità che affligge in questi giorni l’Italia,specie al Nord,
non è una novità. Anche se si manifesta con maggiore
ricorrenza a causa dei mutamenti climatici.La storia ci
indica le soluzioni, ma siamo portati a ignorarla.
“Tanto tuonò, che piovve!”, un detto che metaforicamente identificava la capacità di prevedere o provocare un evento a furia di parlarne. Oggi, con l’evoluzione climatica in corso, il detto andrebbe leggermente modificato, poiché l’evento presagito non è la pioggia, bensì la siccità, preceduta dal grande rumore che hanno prodotto tutti gli organismi di ricerca e tutte le organizzazioni internazionali, non importa in che settore operino.
Ormai è quotidiano da diverso tempo l’allarme sui notiziari dei mass media ma, curiosamente, solo ora le autorità nazionali se ne preoccupano e corrono ai ripari con un metodo definibile “all’italiana”, cioè trasformandolo da intervento ordinario per il medio-lungo termine, in intervento di emergenza.
Per essere chiari in via preliminare: i cambiamenti climatici sono prodotti dall’uomo e la siccità in corso in Italia è una di queste espressioni, l’affermazione è ormai acclarata a livello scientifico. In tale capacità di produzione concorrono fattori esogeni e fattori endogeni sia al territorio che alle attività condotte. Insomma, non ci si può tirare fuori dicendo che, ad esempio, in Italia si subiscono gli effetti di interventi prodotti altrove (come le guerre in corso o le industrie inquinanti, visto il nostro contributo – talvolta non limitato – alla loro realizzazione), oppure che oggi le nostre aziende sono già in linea e subiamo effetti di interventi passati; in Italia da trent’anni sono state abbandonate (nella sostanza) tutte le attività di programmazione e previsione dell’evoluzione climatica e quando si è intervenuti, lo si è fatto attraverso forme finanziarie, con assicurazioni o compensazioni per “eventi catastrofici”, o attraverso interventi dell’amministrazione centrale orientati alla costruzione di riserve idriche diffuse. Quest’ultimo intervento, che ha prodotto negli anni una discreta quantità di laghi e laghetti artificiali come riserve idriche con invasi realizzati anche per la produzione idroelettrica, è stato progressivamente ridotto.
Attualmente, con scarsa creatività, il governo per far fronte alla situazione sembra si orienti verso la creazione di un commissario straordinario e del conseguente gruppo d’intervento, sperando comunque che qualche santo faccia piovere. Con quali compiti e quali disponibilità agirà una eventuale Commissione, sarà tutto da scoprire, visto che sino ad ora non è stata fatta una previsione ufficiale sull’entità dei costi per contenere i danni causati dalla siccità o avviare una riconversione idrica del Paese, in particolare nelle zone che, abituate a disporre di una consistente riserva idrica ed un clima piovoso, oggi si trovano completamente scoperti a fronte di scarse riserve e scarsissima piovosità (in taluni casi più che di scarsezza, si tratta di consistente piovosità limitata nel tempo e di forte intensità, con effetti devastanti).
Affidarsi alle organizzazioni agricole oppure alle società che gestiscono gli invasi e la distribuzione idrica sul territorio può essere una soluzione necessaria nell’immediato e valida per stimare il livello del danno derivante dalla siccità e delle disponibilità idriche a fronte delle richieste, ma certamente non rappresenta un buon intervento per quanto riguarda le prospettive. Sia i gestori della parte agricola che quelli delle strutture idriche sono parte in causa, taluni molto interessati a ricevere contributi per le colture, agevolazioni da gestire per gli agricoltori, altri interessati ai finanziamenti per la costruzione degli invasi. Ma sono proprio loro responsabili di una programmazione inesistente o scarsa e, soprattutto di una manutenzione della rete che, come si suol dire, “fa acqua da tutte le parti”. In altra occasione mi è capitato di dire che rivolgersi a chi ha causato il danno per avere delle soluzioni, non è la cosa migliore da fare, soprattutto quando i suoi interessi sono strettamente legati all’esistente e si è restii a fare le trasformazioni necessarie per dare soluzioni concrete alla popolazione e, soprattutto, inserire altri soggetti nella ricca tavola della riconversione produttiva necessaria in tutti i settori per combattere la siccità.
Perché in tutti questi anni non è stata prevista una riconversione delle colture nelle aree più sensibili alla carenza idrica, che sono anche le più ricche? Anzi, ad ascoltare le interviste di alcuni agricoltori mandate in onda in questi giorni, sono stati dati incentivi per investimenti consistenti in attrezzature ed orientamenti produttivi a forte consumo idrico. Inoltre, non sono stati fatti piani per la diffusione di varietà più resistenti alla siccità, forse perché meno produttive; non sono state diffuse tecniche (poco costose) che consentano la riduzione dei consumi idrici e l’ottenimento di buone produzioni.
Oggi si cerca di ovviare al problema esaltando i “miracoli” della nuova tecnologia che metterebbe a disposizione in poco tempo colture resistenti e sistemi di difesa e sostegno delle colture “avanzati”. Ma tutto questo ha un costo materiale spesso poco sostenibile ed anche poco giustificabile e trasformerebbe i contadini in operatori dipendenti dal sistema delle macchine utilizzate, una soluzione molto pericolosa e frustrante per le potenzialità che il cambiamento climatico, nella sua ineluttabile progressione, comunque offrirebbe.
In quanto al problema degli invasi, prima ancora di costruirne altri, permettendo a chi esegue le opere di avviare un percorso simile a quello che oggi vediamo in atto sul patrimonio immobiliare, si dovrebbe cercare di migliorare l’efficienza della rete idrica e di contenerne i costi: non si può chiedere di fare risparmi idrici in casa , riducendo il tempo sotto la doccia, sapendo che comunque coloro che gestiscono la rete, hanno perdite superiori al 20% del portato; non mi si può chiedere di pagare di più senza offrire garanzie ad ogni livello. Perché l’acqua è un diritto e non un privilegio e i più deboli vanno tutelati per questa esigenza primaria.
Che fare? Innanzitutto, spolverare la memoria. In Italia ci sono territori che da secoli combattono contro la siccità che hanno affinato tecniche e soluzioni abbandonate perché la modernità e l’alta produttività richiesta dal mercato imponevano questa corsa (rivelatasi fallace). Per limitarmi ai ricordi d’infanzia, alle elementari mi spiegavano il perché della differenza tra i tetti delle case al nord e quelli che vedevo io (sono nato in una città del sud): al nord, bisognava far scendere l’acqua e la neve dal tetto, nel sud la si doveva raccogliere per portarla nelle cisterne.
Quando mio nonno, dopo un terremoto negli anni Sessanta, ricostruì la casa, sigillò (ma senza eleminare) la cisterna che raccoglieva l’acqua piovana e che si trovava sotto il pavimento della cucina. Oggi si tratterebbe di prevedere nelle abitazioni delle cisterne in grado di raccogliere l’acqua piovana, e non sarebbe una novità, visto che, mutatis mutandis, una cinquantina di anni fa si collocarono sui palazzi delle città i cassoni di riserva per ovviare al taglio periodico della fornitura idrica. Se riprendessimo a studiare gli assetti agronomici di un tempo scopriremmo che arabi e normanni (parlo delle zone da me conosciute) costruirono cisterne sotto o all’interno delle cittadine fortificate, sempre per ovviare alla carenza idrica, e che nell’arco di territorio murgioso tra Conversano e Polignano a mare (sud-est barese), le colture del ciliegio, dei fichi e dei mandorli, degli ortaggi e dei carciofi (nome di origine araba) venivano praticati in modo alternato stagionalmente, seguendo l’andamento delle piogge e delle temperature. Oggi nella stessa area, dove i sistemi colturali si sono progressivamente incrociati, realizzando un mélange di colture a
costante e forte richiesta idrica, è usuale la vendita d’acqua tra vicini a prezzi esorbitanti, la presenza di tubazioni volanti lungo le strade, e anche il “furto” d’acqua.
Sono solo piccole idee, ma immaginate se al contributo di idee e di realizzazioni si interessasse l’intera popolazione, partendo dalla sua parte più sensibile: i giovani di Friday For Future, i produttori biologici, gli operatori delle aree protette. Attraverso le comunità locali, utilizzando i sistemi di rete e comunicazione in modo trasparente, si potrebbe realizzare per l’acqua quello che si cerca di fare per l’energia elettrica: comunità idriche simili a quelle energetiche.
Avere dei sogni e realizzarli: questo è il nostro futuro.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti