Domenica 26 febbraio. Giunge la notizia del drammatico
naufragio di un barcone di migranti davanti la costa calabrese.
Fioccano le dichiarazioni, ma sono poche quelle che affrontano
il dramma della migrazione climatica.

 67 morti, 80 disperati in cerca di sistemazione, un numero indefinito di dispersi: questa la sintesi di un dramma umano che ci coinvolge tutti e non assolve nessuno. Tra le rituali espressioni di cordoglio e le immancabili discussioni dei giorni successivi, mancano proposte concrete riferite alle cause di questa tragedia. Qualcuno ha, addirittura, condannato i migranti, come il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi che ha dichiarato: “La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”. Certo, i migranti avrebbero dovuto scegliere diverse “condizioni di viaggio”, quali comodi jet o transatlantici di lusso, come un qualunque turista in vacanza. Probabilmente il ministro si sarà fatto trarre in inganno dall’aver appreso il prezzo che i trafficanti di anime esigono per la traversata: dagli 8 ai 10 mila euro a persona. Appunto, ben più del costo di una crociera di lusso, quindi colpevoli loro per aver scelto un fatiscente barcone .Perché? Perché? L’unica dichiarazione di buon senso che abbiamo notato è stata quella del presidente Mattarella che, nell’immediatezza, ha sottolineato la necessità di “un forte impegno della comunità internazionale per rimuovere le cause alla base dei flussi di migranti; guerre, persecuzioni, terrorismo, povertà, territori resi inospitali dal cambiamento climatico“.

 

“Aiutiamoli a casa loro” è stata una delle espressioni più ripetute in questi giorni ma se ci si limita a contrastare le partenze, con discutibili accordi con quegli Stati da dove avvengono gli imbarchi od ostacolando le forme di recupero in mare e si tarda ad intervenire sulle cause della disperazione di tanti popoli, essa si traduce in un pilatesco “Aiutiamoli a morire a casa loro”. Ecco perché alle dichiarazioni di facciata devono seguire fatti concreti che pongano sì in primo piano il tema dell’accoglienza e di sicuri corridoi umanitari ma, in contemporanea, quello delle numerose origini del fenomeno migratorio, altrimenti l’indignazione,

il dolore, il cordoglio e le condanne resteranno sempre un comodo espediente per lavare le proprie coscienze e, in definitiva, per chiamarsi fuori dalla ricerca delle soluzioni. Per questo troviamo francamente incredibile il rimpallo delle responsabilità tra le autorità che svolgono  compiti d’istituto sul mare, “spaventate” dalle onde alte; così come stucchevoli, se non indecenti, sono gli altrettanto vicendevoli rimpalli di responsabilità tra chi è al governo degli Stati e chi è all’opposizione, tutti dimentichi che la politica di ieri come quella di oggi ha ormai di fatto (ma anche di diritto) posto al secondo piano la salvezza delle vite umane, rispetto agli interventi di polizia. E questo al di là delle infelici uscite di taluni che pur non abbiamo mancato di segnalare anche qui. E’  certamente importante definire meglio i criteri dell’accoglienza, dell’assistenza a mare, dei ruoli dello Stato e dei volontari, tutte cose che competerebbero a chi governa, ma possiamo pensare che chi si trova, solo oggi, fuori dalla stanza dei bottoni, si possa facilmente autoassolvere?

Molto opportunamente, il presidente Mattarella ha parlato di “comunità internazionale” e non di governi. E la comunità siamo tutti noi, con o senza ruoli di governo, ma tutti egualmente responsabili e coinvolti. E allora, riflettiamo sulle nostre di responsabilità. E, per quello che sappiamo e possiamo, non abbiamo potuto fare a meno di notare che la gran parte (se non la totalità) delle vittime di Crotone, provenivano dall’Afghanistan e, forse, alcuni dall’Iran o dalla Siria. Non è la sottolineatura di un mero dettaglio. Vent’anni d’intervento militare da parte degli USA e dei paesi NATO in Afghanistan raccontano di un fallimento dei conflitti armati per la soluzione di conflitti sociali e umanitari e finiscono per calpestare la dignità e la libertà di popoli che sono costretti a subire, inermi e incolpevoli, a disegni di predominio globale sul mondo. Ma ora in Afghanistan si continua a morire non più per la guerra, ma per le conseguenze che essa ha lasciato. Oggi, a quasi due anni da quando i Paesi occidentali se ne sono andati e dalla presa di Kabul da parte dei talebani, l’Onu segnala che il paese è “ad un passo dalla catastrofe umanitaria”, oppresso da una gravissima crisi economico-alimentare aggravata dalla cancellazione di vent’anni di diritti. L’unica alternativa di salvezza è la fuga, non soltanto dai talebani, ma anche dalla fame.

Riportava una corrispondenza di Ahadolla Hoseiny (laurea in Scienza della mediazione linguistica a Roma. Pashto madrelingua; interprete, traduttore e mediatore culturale): “A voler fuggire non sono soltanto coloro che risultano più compromessi a causa della collaborazione con le forze della coalizione occidentale o per il loro impegno nella società civile, ma ci sono famiglie intere, donne e giovani che hanno perso qualsiasi prospettiva, presente e futura. In questi mesi invernali, nonostante il freddo e le abbondanti nevicate, molti profughi hanno intrapreso il viaggio. La BBC Persian riferisce continuamente del ritrovamento di corpi congelati, di vittime del gelo e di trafficanti senza scrupoli. Ha suscitato scalpore la foto della mamma afghana messasi in viaggio da sola con i suoi due bambini e trovata morta congelata lungo il confine turco-iraniano, dopo aver camminato per centinaia di chilometri, tra la neve a piedi nudi, privandosi dei suoi indumenti per proteggere i suoi figli” [ditelo a Piantedosi -nda-]. “La potenza di quell’immagine è emblematica della tragedia in atto in Afghanistan e del dramma vissuto dalla popolazione nei suoi molteplici aspetti: la disperazione delle donne, delle madri, delle vedove, dei bambini, di un popolo affamato che ha perso tutto, ormai senza libertà, senza lavoro, senza istruzione, senza aiuti, che scappa appena può. La situazione è così drammatica che molte donne disperate, rimaste senza capofamiglia, si sono messe in viaggio da sole dai villaggi più remoti, per dare una possibilità di sopravvivenza ai loro figli.”

Ma, quello che è opportuno segnalare è che la crisi era precedente la presa del potere dei talebani: già 12,2 milioni di afgani, secondo l’ONU, vivevano in uno stato di grave insicurezza alimentare, colpiti duramente da carestie ricorrenti e dalla pandemia diffusasi senza controllo. Già nei mesi precedenti al ritorno dei talebani, oltre settecentomila persone delle zone rurali avevano dovuto abbandonare le loro case a causa della peggiore siccità degli ultimi anni, riferisce sempre l’ONU. La migrazione climatica si confonde quindi, e spesso aggrava, le altre cause di migrazione quali guerre, terrorismo e soppressione dei diritti civili. “A causa della desertificazione ed eventi meteorologici estremi, migliaia di persone rimangono uccise, milioni sono private dei mezzi di sostentamento, condannate a fame, miseria e migrazioni”, aveva dichiarato, durante la Cop27, il segretario generale della Wmo (World Meteorological Organization), Petteri Taalas. Ma i leader mondiali a Sharm el Sheik non sono riusciti a trovare un accordo sulla riduzione delle emissioni e neppure sulla graduale uscita da tutte le fonti fossili. 

Ecco perché siamo tutti coinvolti nella battaglia per il clima perché contrastare i cambiamenti climatici è anche un modo di contribuire alla soluzione del fenomeno migratorio di tanti popoli.

Giuseppe d’Ippolito, Website Founder