La carenza idrica è un fatto che non si può più ascrivere all’emergenza.
Essa ci invita a pensare produzioni agricole meno concentrate, meno intense,
con colture in grado di essere polivalenti. Una di queste colture è la canapa
una presenza antica ed importante per l’Italia, sufficientemente rustica,
in grado di adattarsi a terreni detti difficili, perché poveri di nutrimento,
coltivabile anche con scarsi apporti idrici, con scarse necessità d’intervento.
Ma è una coltura su cui si sono accumulati numerosi pregiudizi.
Non possiamo limitarci a criticare il lassismo degli enti che sono preposti al controllo ed alla distribuzione delle risorse idriche, né sottolineare l’ulteriore irresponsabilità delle organizzazioni agricole che lanciano sempre allarmi per l’emergenza senza tuttavia creare la coscienza del cambiamento climatico tra gli agricoltori, anzi, confermando le scelte energivore e dissipatrici della risorsa idrica, fatte per seguire i principi del libero mercato.
Ora è necessario offrire alternative produttive e questo compito non può essere demandato solo alle organizzazioni professionali agricole. Per troppo tempo i professionisti dell’agricoltura hanno proposto e guidato il settore evitando di fare ciò che è logico, cioè proporre soluzioni che allarghino l’influenza degli agricoltori, coinvolgendo anche forze e cittadini operanti fuori dal settore specifico. Invece in agricoltura è avvenuto il contrario, le soluzioni sono state scarsamente condivise dal resto della società e hanno perseguito obiettivi a vantaggio di minoranze sociali (vedi il caso del mancato rispetto delle quote latte). Al pari di molte scelte industriali, hanno trasformato alcune zone del Paese di grande potenzialità produttiva agricola (la Valle Padana, ad esempio), in zone di forte disparità sociale, di forte inquinamento, di caotica attività. L’armonia che il progresso industriale ci ha fatto sognare si è trasformata spesso in un incubo per chi lavora nelle campagne, e non solo per loro.
Oggi la massa degli “agricoltori a titolo principale”, in grado di ricevere contributi da Bruxelles per la loro attività, sono una minoranza rispetto a quanti in realtà praticano l’agricoltura. I piccoli e piccolissimi agricoltori rappresentano numericamente i tre quarti degli operatori del settore ma detengono una ristretta minoranza delle proprietà; essi controllano una percentuale infima della produzione, ma consentono a larghe fette della popolazione meno abbiente di mangiare meglio, perché rappresentano quella fetta di autoconsumo aumentata durante la pandemia, e di risparmiare sul consumo alimentare, l’unico consumo che le fasce a basso reddito, quelle più fragili, sono in grado di controllare. Questa agricoltura minore, che spesso viene definita “agricoltura urbana e peri-urbana” per la sua collocazione, è anche un forte fattore di coesione e di senso della vita per quanti la praticano ed indirizzarla sarebbe un dovere per le organizzazioni agricole che però hanno altre prospettive, economicamente più allettanti.
Un tempo le organizzazioni agricole guidarono le fasce povere della popolazione italiana alla promozione sociale ed elevarono l’agricoltore al rango di benemerito, fornendo la manodopera per la riconversione industriale del Paese e gli alimenti per le città. Passata quell’epoca, oggi gli agricoltori a titolo principale sono delle pedine sempre più telecomandate dal sistema di filiera guidato dalla finanza, dai detentori di brevetto, dall’agroindustria. Questo mercato composto da filiere lineari in cui conta produrre sempre di più (e per farlo serve investire sempre di più, indebitarsi, concorrere contro gli altri agricoltori con prezzi sempre più bassi) non è riconvertibile ad una economia circolare. Per avviare questa riconversione serve ripensare gli investimenti, sviluppare la cooperazione tra operatori agricoli, favorire l’integrazione con il resto dei cittadini, rinegoziando il patto sociale che un tempo aveva delegato al mondo agricolo il compito di alimentare la società industriale; tutte cose contrarie alla logica del libero mercato.
Per rinegoziare il patto serve aver memoria di un passato in cui la circolarità delle produzioni e dei consumi (sia pure, un tempo, frutto di un’economia povera) sviluppavano la coesione sociale e permettevano di vivere con un consumo energetico limitato. Le scelte di allora possono essere un’utile guida per quelle di oggi, opportunamente rivisitate, perché sottrarrebbero il nostro futuro dai brevetti controllati da pochissimi soggetti; un futuro, questo, che affida a pochi il compito di decidere per tutti. Il decentramento delle decisioni, la diffusione della democrazia vanno di pari passo con il decentramento produttivo e questo può avvenire solo rispettando le condizioni ambientali esistenti. Il sogno di sottomettere la natura attraverso la tecnica, piegandola ai nostri voleri, ha trasformato l’agricoltura da produttrice di energia (unica attività in cui il lavoro consente un bilancio energetico ed ambientale positivo grazie alle piante) a consumatrice di energia e produttrice di inquinamento attraverso l’uso sovrabbondante di mezzi tecnici prodotti sintetici e grande concentrazione del vivente praticata negli allevamenti industriali.
La carenza idrica è un fatto che non si può più ascrivere all’emergenza, certificata come è dall’insieme delle fonti e dai molteplici indicatori di settore. Continuare a considerarla emergenza serve solo a mettere la testa nella sabbia e a convincere gli agricoltori che, essendo un fatto imprevedibile, non ha dei veri responsabili. Invece essa cambia le carte in tavola e ci invita a pensare produzioni agricole meno concentrate, meno intense, con colture in grado di essere polivalenti e con possibilità di organizzare una struttura industriale nelle vicinanze, senza affidare le produzioni a trasporti che infine incidono pesantemente sul prezzo al consumo. Ma quali sono queste colture?
Una di queste colture è la canapa ed una delle zone in cui è necessaria una riconversione con il suo impiego massiccio è la Valle Padana. Come ACU abbiamo sufficienti competenze professionali per sostenere questa tesi e riteniamo importante avviare la riconversione superando il periodo degli studi di fattibilità, per avviare gli investimenti colturali a pieno campo.
Se analizziamo la storia di questa produzione, rileviamo una presenza antica ed importante, tanto che cento anni fa l’Italia era la seconda produttrice mondiale di canapa dopo la Russia, la coltura era diffusa in tutto il Paese, le sue attitudini produttive buone in tutti i diversi ambienti pedoclimatici, i suoi impieghi molteplici. In particolare, si dimostrava una coltura sufficientemente rustica, in grado di adattarsi a terreni detti difficili, perché poveri di nutrimento, coltivabile anche con scarsi apporti idrici, con scarse necessità d’intervento: poche lavorazioni, pochi parassiti da combattere, flessibilità nella raccolta.
Aveva contribuito alla grandezza delle repubbliche marinare, costituendo il tessuto di tutte le corde e gomene (e anche velature) impiegate ma si era scontrata con il progresso industriale e le scoperte dei tessuti e dei materiali sintetici. Il suo uso per fare la carta era stato soppiantato da quello del legno e gli ettari coltivati in Italia si sono poi ridotti a poche centinaia. Oggi nella UE il massimo produttore è la Francia, da cui importiamo i semi per coltivarla.
Ma una coltura che non richiede concimi chimici, preferendo quelli organici e neanche in grandi quantità per produrre adeguatamente, che non vuole diserbanti, poiché dopo un paio di settimane copre con il suo fogliame la superfice dei terreni impedendo la presenza di piante concorrenti, che ha una radice fittonante, tanto da considerarla coltura di rinnovo successiva al grano nel sistema delle rotazioni, in grado di cercare le zone umide nel sottosuolo in periodi di carenza idrica, con una produzione dai moltissimi impieghi anche senza particolari scelte varietali (che comunque sono ovviamente auspicabili); perché una coltura così non viene inserita nei correnti sistemi agroindustriali? Perché è una coltura su cui si sono accumulati pregiudizi.
Il primo è il pregiudizio della non modernità. Una coltura legata al passato povero degli italiani, che richiede lavorazioni in loco, che si lavora anche a mano e si raccoglie con una fase finale anche spigolando, poco si addiceva alla modernizzazione dei costumi. Ma non secondario è il carico negativo del suo nome, abbinato a proibizioni ed illegalità che, ovviamente, prescindono dalla realtà e dal valore della coltura. A questo si è unita una legislazione nazionale e comunitaria incentrata sulle percentuali infinitesimali di sostanze con proprietà allucinogene presenti che permettono di classificarla come coltivazione proibita. Un sistema, questo sì allucinante, di analisi preventiva delle specie e delle varietà ammissibili che, unito alla campagna di “criminalizzazione” della pianta sino ad ora svolta, ne ha fatto un qualcosa da evitare. Insomma, si è sino ad ora buttato via il bambino con l’acqua sporca, nascondendo le grandi qualità mediche della pianta, la possibilità di selezione varietale e, soprattutto, dandole valenza negativa. Eppure esistono in tutte le regioni istituti che svolgono prove sperimentali dai risultati promettenti, amministrazioni che si lamentano per la legislazione “troppo burocratica” e limitatrice del suo impiego. Ma pensate, cosa potrebbe succedere se in un piccolo paese qualcuno iniziasse a coltivarla? A differenza di altre colture, sarebbe chiamato a giustificarsi della sua produzione al bar, con i conoscenti, con il parroco, persino con qualche solerte carabiniere….
Invece pesiamo che la coltivazione della canapa rappresenti non solo un glorioso passato, ma un importante futuro. Cosa ci sarebbe di meglio per disinquinare i territori della valle padana, pieni di diserbanti e di concimi utilizzati nelle colture di mais e riso, ora che il Po è in secca e queste colture sono improponibili per la loro grande necessità di acqua? Cosa ci sarebbe di meglio per evitare che parassiti come la Piralide (una farfalla che si nutre negli steli del mais, stroncandoli) che, pur mangiando anche nella canapa, non ne impedisce la crescita ma ne causa invece una sorta di accestimento? Perché non ovviare al costoso ed inquinante uso del gliphosate per proteggere il mais con una coltura come la canapa che, non richiedendo diserbo, disinquina il terreno e pone fine alle frustranti discussioni sulla necessità del diserbo, sul suo costo, sul fatto che per alcuni esso è “innocuo ed auspicabile”?
Infine, la siccità, questo grande spauracchio diventato realtà nella valle padana, la zona più umida d’Italia, quella che vista dall’aereo sembra un catino coperto da una nuvola di vapore che invece è inquinamento. Ci si deve adattare, non si può combattere e, in attesa della costruzione dei grandi serbatoi che conserveranno le piogge che, però, sino ad ora non sono giunte, sarebbe meglio cambiare programma colturale. Questo significherebbe, finalmente, discutere la riconversione del settore zootecnico, ridurre gli allevamenti intensivi legati alla coltivazione nell’area padana del mais. Ma è proprio quello che non si vuole fare, perché la messa in discussione degli assetti produttivi implicherebbe la messa in discussione del sistema di profitto che si è creato sulle spalle dei contadini e sulla pelle degli animali d’allevamento.
Discutere per molti è inopportuno e fa male. Tutto va bene, madama la marchesa ma, come dice anche questa vecchia canzone, c’è stato un piccolo incidente: è morta la sua giumenta preferita, perché si sono bruciate le scuderie, perché il castello è andato in fiamme, perché è caduto il candeliere a causa della spinta data dalla caduta del marchese suo consorte che, alla notizia di aver perso tutto, si è suicidato.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti