Quale mito alimenterà la prospettiva di un ponte sullo stretto di Messina?
E cosa ne sarebbe di questa opera e che senso avrebbe per i posteri?
Un’opera che, collegando un’isola al resto del proprio Paese, si iscrive
in un circuito economico basato esclusivamente sull’immagine.
Le recenti decisioni del Governo prevedono, tra le altre, quella dell’avvio dell’iter per la costruzione del “Ponte sullo stretto di Messina”, un fatto che, per la sua dimensione, potrebbe impegnare lo Stato, le forze politiche e la società italiana per decenni e che avrà impatti sulla vita nostra e delle generazioni successive. Che sia stato enunciato a margine e tra le altre decisioni prese, decisioni certamente di peso ma forse di minore impatto sul futuro della popolazione, mostra una certa sottovalutazione e altrettanta mancanza di prospettiva in cui si muove l’azione di chi governa.
I governi italiani non hanno agito sempre con tale noncuranza: la decisione di creare un megacentro siderurgico a Taranto, miticamente visto come il più grande e moderno del pianeta, fu sviluppata attraverso una discussione del Paese, che coinvolse l’opposizione politica e i sindacati, che ricevette consenso da persone di differenti orientamenti culturali, proponendo un immaginario ed una prospettiva concreta alla società, un’idea di benessere e di vita agiata attraverso le mega-macchine industriali che avrebbero guidato l’Italia. Molto più tardi, una parte di quanti avevano sostenuto il siderurgico a Taranto si sarebbero accorti che fosse un errore e avrebbero tentato qualunque soluzione per ovviare ai problemi creati dal megacentro, che uccideva i suoi lavoratori e produceva effetti opposti alle aspettative create. Quella decisione, che oggi riteniamo sbagliata e letale per l’area coinvolta e tutto il sistema italiano, fu il prodotto di una cultura che plasmò l’immaginario di diverse generazioni e il modo di vivere di tutte le classi. Era difficile avere un’idea diversa e quei pochi (come me) che la professavano era considerati con una certa degnazione: era lo specialismo della nostra formazione che ci portava a conclusioni catastrofiche sulla natura dell’industria siderurgica, dicevano un tempo: il tempo è un grande scultore ed è impietoso nelle immagini che produce.
Ho evocato la vicenda del “mostro siderurgico” di cui ora non sappiamo come sbarazzarci (ma se ne potrebbero citare altri più lontani nello spazio, come Chernobyl o l’ex Lago di Aral) per sottolineare l’aspetto del mito che ha preceduto e sostenuto un simile intervento, mito che non dovrebbe essere sottovalutato anche nei suoi effetti a lungo termine.
E di miti vorrei parlare, per ragionare sulla relazione tra costruzione del Ponte sullo stretto di Messina e cambiamento climatico, fatto imprescindibile che condizionerà lo spirito con cui affronteremo i tempi a venire. Non mi dilungherò, quindi, sulle motivazioni razionali del pro e contro una simile opera, perché non saranno queste a pesare sulle decisioni finali e sulla volontà di sostenere oltre ogni limite una qualunque decisione. Pensate forse che Hitler ragionasse razionalmente nel pensare di scatenare la guerra di un piccolo Stato su due fronti (est e ovest)? Che Napoleone o Alessandro Magno fossero razionali nel pensare di andare con un pugno di uomini alla conquista di territori sterminati e sconosciuti? E non parlerò dei miti correlati alla vittoria di uomini su uomini (come quelli ora evocati), ma di quelli volti ad esaltare la grandezza delle opere umane sulla Natura, un corollario del mito di Prometeo che ruba il segreto del fuoco agli dèi, rappresentato oggi dal “rubare” il segreto dell’atomo o quello del DNA. Senza una cultura che sancisca la fine di un “mito” non possiamo pensare di evitare un modo di agire ad esso collegato e, per contro, i miti vanno maneggiati con cura, perché forieri, specie nella loro caduta, di dolorosi passaggi epocali. L’assenza di tale cultura porta a sconfitte e senso di frustrazione, come accadde in Italia per quanti non si rassegnano al risultato di un referendum popolare che verso la fine degli anni ottanta eliminò la prospettiva di creare centrali nucleari nel Paese. Oggi si vorrebbe riproporre tale percorso già superato e riproporre il passato come futuro è sempre segno di prospettive limitate. Oggi che il mito del progresso vacilla e quello dell’industria creatrice di benessere è certamente tramontato, quale mito alimenterà la prospettiva di un ponte sullo stretto di Messina? E cosa ne sarebbe di questa opera e che senso avrebbe per i posteri?
Allora penso al mito del “Colosso di Rodi”, o quanto potrebbe restare nella memoria del “Tunnel sotto la Manica” ed anche ad opere meno mitiche ma forse più interessanti, come il collegamento fatto in epoca romana tra l’isola di Jerba ed il continente africano.
Il “colosso di Rodi” è mai esistito? L’attuale risposta è no. Oltre al mito che ne ha fatto una delle sette meraviglie del mondo, citata per la prima volta in una poesia di Antipatro di Sidone intorno al 140 a.C. e con l’originale primato di essere l’ultima meraviglia creata nell’antichità (292 – 280 a.C.) e la prima ad andare distrutta (226 a.C.) a causa di un terremoto, vi sono concreti dubbi sulla sua reale esistenza. Infatti, si ritiene poco probabile, date le tecniche disponibili all’epoca, la costruzione di una statua di tali dimensioni poggiata su due piloni all’ingresso del porto di Rodi e con un’apertura tale da far passare sotto di essa le navi. Molto più plausibile, in base anche ai resti rinvenuti, che esistessero una o più statue all’ingresso del porto, edificate nel periodo considerato, come segno di potenza dei cittadini e benevolenza degli dèi (come oggi esistono madonne e santi che vegliano su tanti porti in Europa) ma anche più concretamente come fari di segnalazione per orientare le navi in arrivo. Cosa ha creato allora questo mito? Innanzitutto, la storia della città-stato di Rodi: un’aggressione avvenuta nel 304 a.C. da parte di Demetrio, erede di Alessandro Magno, con strumenti bellici eccezionali per l’epoca (catapulte e torri d’assedio) impedita prima da una tempesta che distrusse le navi degli aggressori e poi dall’aiuto portato dal generale Politemo che, arrivando con le sue navi, riuscì a scacciare gli invasori. Una storia uguale e contraria a quella di Troia, che pertanto richiedeva adeguati ringraziamenti agli dèi da parte dei cittadini e un ricordo egualmente grande. Ed il mito ha resistito anche alla realtà dei fatti che portarono alla distruzione della statua sessant’anni dopo ad opera di un terremoto, evento usuale nell’area, ma sottovalutato anche nell’antichità. Un monito per quanti oggi ritengono di poter utilizzare risorse preziose e ottenere guadagni consistenti in un’area altamente sismica. Non penso che i fautori di un ponte sullo stretto di Messina si esporrebbero ai rischi di una costruzione spazzata via dalla furia della natura dopo pochi decenni, anche se portasse con sé un ricordo imperituro tra le generazioni future.
Meno mitico ma più concretamente motivato, il tunnel sotto la Manica unisce motivazioni tecniche e obiettivi politici che ne hanno fatto un esempio di realizzazione moderna del sogno che, dai tempi dell’antica Roma, avrebbe voluto unire la Britannia “romana” a quella più grande esistente oltre le nebbie ed oltre le grandi maree che colpirono l’immaginario di ogni conquistatore giunto ai limiti del continente. L’idea di superare la millenaria contesa tra l’Inghilterra e la Francia, che sostenne ideologicamente la realizzazione dell’opera, si infrange attualmente contro le miserie umane delle leggi di mercato e del nazionalismo che riconquista i popoli. Correntemente conosciuto come Eurotunnel (nome della società costruttrice), il “canale sotto il canale della Manica” è una galleria ferroviaria lunga oltre 50 km che unisce il comune del Regno Unito di Cheriton nel Kent a quello francese di Coquelles, vicino a Calais, passando sotto il fondale marino. È il tunnel con la parte sottomarina più lunga al mondo e il terzo tunnel ferroviario del mondo per lunghezza complessiva e la sua realizzazione, (immaginata nel 1957, progettata già nel 1973 ma partita dopo diverse riprogettazioni nel 1987) fu completata nel 1994, con un costo che, inizialmente stimato in 4 miliardi di sterline di capitali privati, è infine lievitato fino – pare – ai 10 miliardi di sterline (11.436.693.301 euro). A questo punto gli aspetti mitici dell’opera cedono il posto a prosaiche considerazioni di mercato, peggiorate dopo la decisione del Regno Unito di allontanarsi dalla Unione Europea. Il tunnel sta operando se non in perdita, senza comunque guadagni, e le azioni che hanno finanziato l’opera persero il 90% del proprio valore tra il 1989 e il 1998. La società Eurotunnel ha annunciato una perdita di 1,33 miliardi di sterline nel 2003 e 570 milioni di sterline nel 2004 ed è in costante negoziato con i creditori. A propria difesa Eurotunnel ha citato un traffico insufficiente (solo il 38% dei passeggeri e il 24% delle merci previste in fase di progetto) e un gravoso carico di interessi sul debito. Parte dell’insuccesso commerciale dell’operazione sembra essere causato dalle eccessive tariffe di transito. Ma anche gli aspetti di governance, complessi e peggiorati dalla rottura UK/UE non hanno favorito la risposta agile necessaria a fronteggiare le perdite economiche.
Non è necessario addentrarsi nei meandri statistici (pure interessanti) per cogliere il senso del fallimento dell’opera: tra gli stati che chiudono le frontiere, le notizie di fallimenti di banche e il peso dei controlli sui migranti, derubricati da opportunità sociale ed economica a problema di sicurezza dello Stato, quest’opera resta un lusso per ricchi e perde il suo senso commerciale e sociale, lasciando in incognito gli effetti sull’ambiente. Se si cercassero dati sui costi ambientali e sulle loro ricadute future, ci troveremmo davanti a un mare di silenzio.
Occorre riflettere profondamente sul senso di opere che attirano capitali solo per il meccanismo innescato: investimenti/movimento di capitali/assicurazioni/reinvestimenti. Un meccanismo di movimenti virtuali che non può coprire la fine di un sistema globale incapace di adattarsi ai tempi ed ai circuiti del vivente. Cosa sarà di un’opera che, collegando un’isola al resto del proprio Paese, si iscrive in un circuito economico basato esclusivamente sull’immagine: pensare che siano i grandi circuiti internazionali del turismo a sostenere i costi e i guadagni prodotti da quest’opera significa chiudere gli occhi davanti alla decrescita in corso sul pianeta, causata dalla finitezza delle risorse, dall’instaurarsi d circuiti economici locali, dalla presenza del mondo virtuale che surroga e spegne la voglia di viaggiare e di conoscere.
Infine, il tema della dimensione ecologica che sembra assente dalle valutazioni esistenti nel libro/ brochure datato 2008, “La ricerca non ha fine. Il ponte sullo stretto di Messina”, basato sul progetto che certamente andrà rivisto e la cui revisione non potrà limitarsi ad un facile greenwashing, come ha incautamente lasciato trasparire l’attuale Ministro dei Trasporti. Sono troppi i nuovi parametri da considerare: dall’ecodesign agli indicatori di BES (Benessere e Sostenibilità), agli obiettivi dell’agenda 2030, alla presenza di futuri mezzi di trasporto ridotti di numero e con motori elettrici o a carburante sintetico.
Se dovessi pensare ad un’opera sostenibile, penserei ad un ponte romano del II secolo d.C. che nella località tunisina di El Kantara collega l’isola di Djerba al continente ed è lungo circa 6/7 km. I romani decisero di costruire qui il ponte sia per la vicinanza di questa zona all’allora capitale dell’area Meninx, sia per i bassi fondali marini presenti. In realtà non si tratta di un ponte, ma di una sorta di strada-terrapieno, coperta dall’acqua durante l’alta marea, in particolare in un punto oggi sostituito da un vero e proprio ponte; ristrutturata più volte nei secoli, fu utilizzata dalle carovane di cammelli che facevano tappa nella ridente isola prima di riprendere il viaggio verso il nord o caricare nelle navi i prodotti delle oasi.
Una strada che nei secoli è stata testimone e protagonista di vari impieghi, addirittura usata nel XVI secolo da Dragut (il condottiero djerbino) e la sua flotta per mettere in scacco, con il gioco delle maree, quella dell’ammiraglio genovese Andrea Doria. Una storia di pirati e scorrerie nel Mediterraneo che sembra infinita e che ci ricorda che le governance delle grandi strutture in questo mare non sono mai state esenti dalle rissose contese dei piccoli stati che l’hanno composto.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti