La politica sembra proprio non voler recepire le indicazioni
degli scienziati. Anche importanti Rapporti, come quelli dell’IPCC,
che pur lanciano segnali allarmanti per il Pianeta, sono fortemente
condizionati dagli interessi degli Stati membri.
Nel nostro ultimo intervento del 30 marzo (“La bomba a orologeria climatica sta ticchettando” qui) abbiamo parlato del terzo volume del sesto rapporto (AR6) del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), presentato al mondo il 20 marzo scorso.
Alcuni di coloro che ci seguono, evidentemente i più attenti, hanno notato che, aldilà delle citazioni più rilevanti e significative, non abbiamo dato molto spazio alla descrizione di singole parti del rapporto dell’IPCC, mentre abbiamo preferito riportare i pensieri di singoli scienziati (alcuni fanno parte del panel intergovernativo; altri no) che hanno dedicato la loro vita allo studio dell’ambiente e del clima. È stato un’impaginazione casuale? No. È stata una scelta ben ragionata e, oggi, ve la vogliamo motivare.
Il IPCC è una benemerita istituzione, con sede centrale a Ginevra, formata nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) allo scopo di studiare il riscaldamento globale. Il 12 ottobre 2007 l’organizzazione ha vinto il Premio Nobel per la pace per l’impegno nel diffondere la conoscenza sui cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento globale. Migliaia di scienziati di tutto il mondo contribuiscono al lavoro dell’IPCC, con un’alternanza periodica e su base volontaria. Ma ai Processi di revisione e alle Sessioni plenarie, in cui vengono prese le decisioni principali sul programma di lavoro dell’IPCC sulle relazioni scientifiche, partecipano pure i governi dei 194 paesi membri che intervengono fattivamente sulla redazione delle relazioni prima che esse siano accettate, adottate, approvate e divulgate. È una fase nella quale, quindi, gli interessi dei singoli stati prevalgono e condizionano il pensiero e le indicazioni del mondo scientifico. Climateaid.it ha avuto modo di verificare, proprio in merito al sesto rapporto, quanto siano stati pesanti ed influenti gli interventi di alcuni singoli stati.
Abbiamo letto nei resoconti dell’Earth Negotiations Bulletin (un servizio di rendicontazione equilibrato, tempestivo e indipendente sui negoziati delle Nazioni Unite in materia di ambiente e sviluppo, un progetto dell’ Istituto Internazionale per lo Sviluppo Sostenibile) come, in quel di Interlaken, un paesino svizzero di poco più di 5.000 abitanti a 571 metri sul livello del mare nel Canton Berna, dal 13 al 19 marzo scorsi, i rappresentanti dei governi abbiano letteralmente litigato su ogni parola, ogni virgola, ogni affermazione del rapporto, prima che esso venisse reso pubblico. L’indicazione di intervenire sulle pratiche di consumo, ad esempio, anche attraverso la leva fiscale, per ridurle e così ridurre le emissioni climalteranti, è stata cassata su richiesta della Cina, evidentemente preoccupata di non turbare l’espansione delle proprie politiche commerciali. Sempre la Cina ha ottenuto di far inserire solo in una tabellina nascosta la raccomandazione del mondo scientifico di ridurre entro il 2035, del 65% le emissioni di CO2 e del 60% le emissioni degli altri gas climalteranti (rispetto al 2019) per avere il 50% delle possibilità di non superare il limite di +1,5 gradi di aumento della temperatura.
L’Arabia Saudita e la Norvegia (sì proprio l’ecologista Norvegia!) hanno imposto che venisse eliminato ogni riferimento, come causa principale dell’innalzamento della temperatura, all’impiego di fonti energetiche d’origine fossile (sarà un caso se l’Arabia Saudita è il secondo paese al mondo per la produzione di petrolio e la green Norvegia deve la sua ricchezza all’esportazioni di petrolio e gas?).
Non poteva mancare la manina degli Stati Uniti d’America che proprio non hanno voluto sentir parlare di equità sociale nei cambiamenti climatici o di trasferimenti di tecnologie ecologiche da paesi industrializzati a quelli meno sviluppati, su cui gli americani stanno investendo centinaia di miliardi di dollari.
Come si fa a manipolare in questo modo un fondamentale rapporto scientifico? Semplice, l’abbiamo ormai imparato dall’andamento delle varie Cop: si attende l’ultimo giorno, quando i delegati dei paesi più poveri (e più colpiti dal climate change) rientrano in sede per risparmiare sulle spese di viaggio e di soggiorno e chi rimane (i paesi più ricchi) avanza le proprie riserve e obiezioni e dà fiato e consistenza alla possibilità di un voto contrario che bloccherebbe tutto.
E l’Italia? Risponde, su Open On Line di Enrico Mentana, Massimo Tavoni, senior scientist del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) e autore degli ultimi due rapporti pubblicati dall’Ipcc. “La siccità e le alluvioni dimostrano che l’Italia è uno dei Paesi europei più a rischio. Questo dovrebbe spingerci ad avere un ruolo proattivo sulle politiche climatiche, e non solo un ruolo difensivo. Il ruolo dell’Italia in sé è piuttosto modesto. Le politiche climatiche che dovrà attuare il nostro Paese sono quelle stabilite dall’Unione Europea, che rappresenta il 10% delle emissioni del pianeta. Il pacchetto europeo di misure per il clima messo a punto in questi anni è il più avanzato al mondo e fissa alcuni obiettivi molto chiari, in linea con i suggerimenti della scienza. Ammetto di avere qualche preoccupazione su questo [per l’Italia -nda-]. L’attuale governo, e in parte anche i precedenti, danno la sensazione di volersi tirare indietro e non prendere sul serio gli obiettivi europei. Questo sarebbe un grande rischio. Siamo la terza economia europea e se perdiamo tutte le occasioni derivanti dalla trasformazione ecologica ed energetica avremo un danno non solo ambientale ma anche economico”.
In conclusione: questo vuol dire che i rapporti dell’IPCC non sono attendibili? Al contrario, essi non solo sono attendibili ma sono addirittura improntati ad un’infinita prudenza e cautela anche quando lanciano segnali allarmanti. La situazione che abbiamo descritto conferma il convincimento che gli accordi tra Stati non bastano e combattere i rischi climatici tocca anche a ciascuno di noi. Perché quello che si può affermare è che lo stato di salute del Pianeta, nella realtà, è ancora più preoccupante di quello che lo stesso IPCC dice.
Se il mondo della scienza potesse parlare senza i condizionamenti della politica, allora sì che tutti capirebbero quale futuro attende i nostri discendenti se non ci muoviamo, e in fretta.
Giuseppe d’Ippolito, Website Founder