Esiste un filo rosso che lega il razzismo, il sessismo
e lo specismo, definizione data a quanti ritengono
che la specie umana sia diversa e superiore alle altre, mentre,
per la nostra Costituzione, la Repubblica deve tutelare l’ambiente,
la biodiversità e gli ecosistemi

La tragica vicenda dell’orsa Jj4 svoltasi in Trentino è la nemesi del rapporto dell’uomo con la natura e rappresenta il vicolo cieco in cui si è infilata la società italiana, composta da individui che, in un momento di difficoltà per la società, preferiscono chiudersi a riccio contro i “nemici”, di volta in volta individuati come elementi alieni: gli immigrati, la Russia, La Francia, i benzinai, la UE, i frequentatori di rave-party, i cinghiali, i lupi ed ora gli orsi.  Coloro che praticano questa costruzione del “capro espiatorio”, si mostrano incapaci di pensare ad altro che alla tutela del proprio benessere individuale, da realizzare ovviamente senza tener conto degli altri, specie quando essi sono animali non umani. E non è un caso che si affermi nel discorso pubblico la narrazione di un Paese assediato, a cui si attenta cercando addirittura di praticare “la sostituzione etnica”, come detto in modo ridicolo da un ministro di questa Repubblica. Si tratta di una visione complessiva in cui compito di ciascun italiano/a è tutelare la propria purezza, il proprio territorio come se non fosse uno spazio comune, ma una proprietà a cui si ha diritto per discendenza, a cui è assegnato anche il compito di scegliere le specie animali o vegetali gradite. Non si spiegherebbe altrimenti il disagio (talvolta odio) verso alcune specie come gli storni, i pappagallini, i gabbiani, i lupi, i cinghiali, persino alcune piante: tutti esseri che non dovrebbero vivere una vita propria secondo questa logica, ma dovrebbero stare al posto che noi abbiamo scelto per loro, anche se loro non lo sanno. Ecco che li rimuoviamo dalle aree, che li confiniamo in spazi che, anche se controllati e delimitati, certo non fermano i loro movimenti. E allora cosa si fa se gli animali o le piante non stanno al posto loro? Per le piante la distruzione tramite diserbo (effettuato in genere con prodotti a noi dannosi) o abbattimento è cosa considerata normale; per gli animali si pratica la stessa soluzione, ma in modo più mascherato: per alcuni di essi, definiti da allevamento, la nascita e l’uccisione sono un destino programmato; per gli altri, l’uccisione è, infine, il medesimo destino, mediato da “situazione di necessità” o dalla caccia.


Che il destino dell’orsa fosse già deciso dalla propaganda mediatica, era evidente sin dalle prime cronache; d’altronde, se una parte degli italiani pensa che in caso di delitti sia opportuno ripristinare
la pena di morte per il colpevole, pensate forse che un animale che uccide un uomo (non importano le ragioni) possa avere per loro una sorte migliore? Che il presidente della Provincia di Trento – Fugatti – avesse in passato tentato di organizzare un banchetto a base di carne di orso, non era certo un segnale positivo per un animale che non ha nemmeno un nome (avendo i media cancellato il nome originale datole dagli sloveni, da cui sono stati importati gli esemplari di orsi per il ripopolamento), ma solo una sigla – come i detenuti dei lager o le vacche d’allevamento che hanno matricole -, a differenza di quegli altri animali che per noi hanno personalità e sono considerati individui ed a cui attribuiamo un nome, li facciamo vivere vicino a noi, diamo loro sepoltura. Ma anche per loro la fine è la medesima, se trasgrediscono le regole non dette, che noi sappiano e che spesso loro non sanno.  

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Esiste un filo rosso che lega il razzismo, il sessismo e lo specismo, definizione data a quanti ritengono che la specie umana sia diversa e superiore alle altre; filo rosso che è alla base dei comportamenti ora descritti ed è spiegato molto bene, con un esempio che potremmo intendere anche come metafora di questa triste storia, dall’antropologa Annamaria Rivera nel libro “La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo” (ediesse, 2010):  

“Una donna piccolo borghese italiana con due figli ha al suo servizio una colf ucraina o filippina, moldava o peruviana, che ne cura la casa, in sua assenza anche la prole, eventualmente si occupa pure degli anziani genitori della signora…. Poniamo che la signora sia sposata con un uomo che svolge un lavoro subalterno, stressante e insoddisfacente, ed è vessato da un datore di lavoro che gli rende la vita impossibile; che il marito la tradisca, la umili o la maltratti; che lei per sfogare la rabbia si lasci andare a scoppi di collera nel corso dei quali maltratta la colf, i bambini e soprattutto il cane di casa. E mettiamo che la colf, che non ama gli animali e detesta quei bambini, nei momenti di stanchezza ed esasperazione, in assenza degli adulti di casa, urli contro i piccini e maltratti il cane. In questo caso immaginario – ma, ripeto, alquanto realistico – è rappresentata quasi l’intera gerarchia del dominio…L’intreccio tra forme molteplici di dominio-subordinazione … fa sì che le stesse persone possano essere al tempo stesso privilegiate e penalizzate….Gli unici a non esercitare forme di potere sono i bambini e gli animali. Eppure, nel caso immaginario che ho illustrato, i bambini potrebbero rivalersi dei torti subiti maltrattando il cane; e il cane un giorno potrebbe reagire ai maltrattamenti di tutti azzannando i bambini. In tal caso i variamente dominanti si coalizzerebbero contro il cane e lo sopprimerebbero.”

Come spesso avviene attraverso la creazione del “mostro in prima pagina”, nel caso di questa povera orsa, è proseguita l’acquisizione di pareri dando per acquisite alcune verità (non dimostrabili) come la ferocia della bestia e l’ineluttabilità della sua propensione assassina dopo il “delitto”. Non importa che in 150 anni si tratti della prima aggressione finita tragicamente, mentre annualmente le battute di caccia registrano decine di morti causati dal “fuoco amico” delle doppiette. Non importa se la vittima non avesse campanelli o segnali acustici come quelli di cui vengono dotati i visitatori dei parchi americani; non importa se, probabilmente, l’orsa difendesse i cuccioli che occupavano l’area di transito di chi correva in quel momento.

Cosa farebbe una madre se vedesse qualcuno correre verso il figlio? Perché un animale, che oltretutto non usa e non è avvezzo al nostro linguaggio, dovrebbe comportarsi diversamente? Infine, non importa la sostanziale inerzia e negligenza delle istituzioni e degli enti locali, in cui chi viene eletto si dichiara magari “il sindaco di tutti”, ma dovrebbe dichiararsi anche il sindaco di tutti gli animali e di tutto il vivente e tenere conto delle situazioni esistenti per i motivi oggi ben evidenti. La cattura di un esemplare di orso ha sempre fatto notizia. In tutte le culture esso ha rappresentato qualcosa di “divino” ed in alcune è considerato un abitante delle foreste con una personalità individuale, tanto simile all’uomo da poter convivere. Questa convivenza non è consistita solo nella condizione umiliante degli “orsi ballerini”, animali che, come schiavi, venivano esibiti nelle fiere di paese in Europa sino a non molti decenni fa, ma ha anche assunto significati profondi.

Partendo dal mito di Polifonte, giovane fanciulla dedita al culto di Artemide che per sfuggire al matrimonio si rifugiò in un bosco e Afrodite, per punirla, la fece innamorare di un orso, dalla cui relazione nacquero due figli Agrio e Orico, selvaggi come il padre – racconta il mito. Sulla sorte di Polifonte e dei figli, i racconti mitici si dividono: in alcune storie Artemide, per punire la giovane della perdita della verginità, la condannò ad essere sbranata dagli animali del bosco, in altri racconti la tragica sorte a cui Zeus avrebbe destinato anche i figli, fu risparmiata da Ares, che li avrebbe trasformati con la madre in uccelli da preda.Nei secoli passati non solo leggende ma anche cronache e persino atti giudiziari hanno testimoniato di giovani (soprattutto donne) catturate da orsi e “detenute” nella tana non come “cibo per l’inverno” o giochi per istruire i cuccioli dell’animale, ma come compagnia, rilevando in tutti i casi descritti (veritieri o meno che fossero) la particolare infatuazione ed affezione dell’animale in questione per la persona di cui si era appropriato. Questo mito è vissuto sino ai giorni nostri, ritrovato in versione farsesca nel film “L’armata Brancaleone”, allorquando alcuni dei protagonisti rincontrano un loro compagno di nome Pecoro nella tana di una femmina d’orso, che lo aveva salvato dopo la caduta nel precipizio, curandolo e adottandolo come proprio compagno.Oggi il legame che portò alla formazione di quei miti è distrutto e con esso le norme minime di convivenza con il mondo “selvatico”. Paradossalmente, tutto ciò avviene in un momento della storia in cui la nostra specie è la più diffusa sul pianeta e ci sia necessità di convivere con le altre a cui restringiamo gli spazi vitali. I cambiamenti climatici si muovono indipendentemente dalle nostre volontà e gli inverni miti potranno favorire molte specie, dando loro un ritmo di vita parallelo al nostro, riducendo i letarghi e favorendo la ricerca del cibo nei luoghi anche da noi frequentati.   

La fine della funzione del mito che faceva dell’orso una figura più simile ad un “umano selvaggio”, da capire, rispettare e temere, non è avvenuta in poco tempo, ma è frutto del progressivo sviluppo della visione positivista, attraverso cui l’uomo ha creduto di poter dominare la natura e le sue leggi, sottraendosi ad essa e creando una dimensione superiore a quella di qualunque altro animale per le sue azioni ed il suo intervento. L’ammissione del fallimento di questa concezione non è stata accompagnata da un progressivo ricollocamento dell’agire umano accanto a quello degli altri animali, cosicché si è giunti ad avere contemporaneamente nella nostra società due diversi modi d’intendere “naturale” e “selvaggio”. Già nel corso dell’Ottocento il poeta Giacomo Leopardi rifletteva sulla natura, scrivendo nel suo “Elogio degli uccelli”:

“… ora in queste cose, una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini ed indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quelle sembianze che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziando non considerando le città, e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme, è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura”.

Riuscendo ad intuire che molta parte del paesaggio non fosse una costruzione naturale, ma il frutto degli interventi avvenuti nei millenni. E nel corso degli ultimi trent’anni, nelle discussioni a livello internazionale, ad esempio su quali dovessero essere gli indicatori agroambientali, si scontravano le due diverse concezioni tra chi riteneva che esistesse un sostanziale dualismo e separazione tra la natura (selvaggia e senza controllo) e le attività umane (in grado di rendere controllabile il sistema naturale) e chi invece riteneva esistente un sistema in cui le nostre attività e la “natura” fossero in un unicum, tanto legate tra loro da poter dire che anche nei posti più distanti dalla civiltà umana era presente il segno di questo modello. Ed è questo il modello che ci ha portato a capire la natura del cambiamento climatico, un modello in cui i paesaggi naturali esistenti nel mondo lo sono perché l’uomo, con la sua attuale “civiltà del mercato”, ha deciso che esistessero.
La coesistenza di due modi d’intendere il naturale ha prodotto alcuni paradossi rivelatisi tragici in questa vicenda: il primo, relativo al riconoscimento della natura attraverso il mercato, facendola diventare un prodotto commerciale; il secondo, in cui il legame ambientale, ritenuto fondamentale da tutti gli specialisti, non lo è ancora per l’insieme della società.

In tal modo si può capire il dualismo presente in venticinque anni dalla reintroduzione dell’orso in Trentino (orso che in ogni caso ci sarebbe rientrato dalla vicina Slovenia, anche se in tempi e in modi molto diversi): il progetto, ispirato da un’idea di ricostruzione dell’equilibrio ambientale dell’unicum basato sulla molteplicità del vivente, e perseguito secondo questa logica; la sua accettazione a livello sociale e di massa, invece, avvenuta in buona parte per considerazioni di mercato (ambiente più naturale = più turismo). Gli enti locali hanno sbagliato nel ritenere che le persone avrebbero saputo trovare un modus vivendi con gli orsi senza una adeguata formazione e istruzione e senza capire che qualunque essere presente in un luogo modifica gli spazi a disposizione ed i comportamenti. Il territorio non è di proprietà degli umani e la dinamica di convivenza non è determinata dai regolamenti, anche se questi possono orientarne il corso. Ora ci rendiamo conto che questo è un principio valido per la convivenza con animali, piante, virus, migranti… .   Valgono le parole del padre della vittima: “Le vendette simboliche non ci interessano, la colpa della tragedia non può essere circoscritta a un’orsa. Ucciderla non significa fare giustizia. Pretendiamo un’assunzione morale di responsabilità da parte di chi per quasi un secolo ha gestito gli orsi in Trentino, spingendo tutti nel disastro a cui assistiamo.”

Ma la gravità del comportamento delle istituzioni locali, volte a trattare i problemi solo quando si definiscono “emergenza”, risiede nel mancato rispetto costituzionale, un elemento cardine, presente nelle ragioni espresse dal padre della vittima e da quanti sostengono “le ragioni dell’orsa”.
Nella nostra
Costituzione, all’articolo 9, tra i Principi fondamentali della Repubblica, vi è un comma inserito con l’art. 1, comma 1, della legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 che recita:   

“LA REPUBBLICA Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.

Ecco, l’inadempienza del dettato dell’ultima frase è la colpevole responsabilità di quanti oggi, pur di lavarsene le mani e dare un esempio, hanno condannato a morte l’orsa. Condanna avvenuta per via amministrativa, senza un regolare processo, perché non esiste un modo per disciplinare le forme di tutela degli animali che sia diverso da quello amministrativo, soprattutto per animali detti selvatici. La tutela degli animali prevede un loro diritto, diritto che è anche avvalorato indirettamente dal giudizio di colpevolezza, dato dal sospetto di reiterazione del “crimine” da parte dell’orsa, tanto da ritenerla socialmente pericolosa, da sottrarle la prole (senza peraltro tutelarla come prevede la Costituzione) e da condannarla anche in assenza di quelle condizioni veterinarie che determinano l’eutanasia. Se è previsto il diritto degli animali, allora è possibile appellarsi ad un atto di clemenza del massimo garante della nostra Costituzione. Un atto del Presidente della Repubblica che realizzi de facto il dettato costituzionale e che riempia il vuoto che esiste nella disciplina della tutela. Se gli animali avessero un diritto alla tutela realizzato dovrebbero avere anche un diritto, in questi casi, al giusto processo ed alla difesa ed infine alla grazia.
Sono molte le associazioni, i parchi naturali, le residenze che in Italia e nell’intera Unione Europea si sono dichiarate disponibili ad ospitare l’orsa ed i suoi cuccioli. Proseguire nell’intento punitivo, privo a mio parere di legittimità costituzionale, non rimedierà al passato e non aiuterà a costruire il futuro.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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