Per far fronte alle crisi che cambiano il territorio occorre riconoscere
la centralità dell’acqua e dell’agricoltura, mutando quest’ultima in
funzione del clima. Le reti idriche nelle nostre campagne assomigliano
sempre di più alle reti autostradali, con un numero sempre maggiore
di vasche e canali disponibili (che ora si chiede di aumentare ulteriormente),
inutilizzati per la maggior parte del tempo e irrimediabilmente sovraccarichi,
quando sarebbe necessario che fossero liberi

L’acqua torna ad essere al centro dell’attenzione, sia che manchi, sia che sia troppa, rendendo priva di significato l’idea, diventata senso comune dal periodo della rivoluzione industriale, che l’acqua sia una risorsa a disposizione delle società umane. Quest’idea, abbracciata dai padri fondatori del pensiero economico liberale, se ne trascinò un’altra che vide nell’agricoltura – di cui l’acqua è elemento imprescindibile – l’espressione di attività arretrata, inadatta a realizzare il progresso; un residuo inalienabile di civiltà del passato, da modernizzare e mettere in carico al meccanismo industriale, vero motore del “progresso”.

Un numero monografico del 1988 di “Italia agricola”, rivista tecnico scientifica dedicata un tempo al settore ed oggi dimenticata, fu intitolato “Pianeta acqua: quale futuro?”. In esso diversi autori si dilungavano sugli aspetti storici della relazione acqua/agricoltura, per far comprendere come sia strutturale il legame tra l’acqua ed i processi di civilizzazione che si sono susseguiti dal neolitico (XIII millennio a.C.) ad oggi. Chiamiamo “rivoluzione neolitica” il processo durato alcuni millenni che permise alle popolazioni del pianeta di comprendere che, per avere una probabilità di successo nel coltivare i vegetali, dovessero praticare l’irrigazione. La nascita dell’agricoltura che ha consentito la sopravvivenza e poi il successo della specie umana sul pianeta è dovuta alla scoperta del valore dell’acqua. La distanza temporale intercorsa (un milione di anni!) tra la comparsa dell’Australopiteco e la rivoluzione neolitica, ci consente di capire la difficoltà e l’importanza di questa scoperta per la specie umana.

Quindi non è un caso che l’acqua fosse considerata un elemento sacro, “il fondo, la sostanza dell’essere, ciò che rimane identico e ciò a cui tutto ritorna”. La desacralizzazione dell’acqua si realizzò nel Settecento con la seconda rivoluzione – quella industriale -, quando le capacità tecniche di modificare la materia ne svelarono la natura chimica di composto. Il declassamento trascinò con sé l’agricoltura, ritenuta da allora in poi attività di base, inadatta a sostenere il progresso dell’uomo.

Per capire la ragione delle scelte scellerate che hanno portato al disastro di oggi in Romagna, terra che esprime al massimo livello i valori di una moderna società del benessere, serve rileggere il passato, come l’uomo sia riuscito a capire e utilizzare l’acqua. La rivoluzione neolitica non avvenne in modo uniforme, né secondo un unico schema. Tuttavia, se analizziamo le diverse aree della Terra in cui si sono sviluppate le prime civiltà, possiamo notare come nascano, quasi nella stessa epoca ed indipendentemente tra loro, diversi metodi d’impiego dell’acqua per le coltivazioni: tecniche di raccolta e impiego dell’acqua piovana per il mais in Centro America e per il riso in Indocina (zone umide e tropicali); tecniche di conservazione idrica per coltivare farro, orzo e grano duro nel Medio Oriente e nella Valle dell’Indo (aree secco-temperate); tecniche di utilizzo delle piene nella zona della valle del Nilo. E un’altra riflessione interessante riguarda la nascita delle città, avvenuta attorno all’attività agricola, a sua volta nata in funzione della possibilità di utilizzo delle acque, e non sotto la spinta della capacità artigianale e commerciale, come ritiene il luogo comune moderno. Nelle antiche città si coltivavano ortaggi e cereali, e solo in seguito esse sarebbero state luogo di immagazzinamento.

Oggi i tecnici di settore avrebbero difficoltà a considerare i cereali coltura irrigua e gli orti e giardini come “agricoltura” perché’ la rivoluzione industriale di cui siamo figli, che ha trasformato “gli agricoltori in schiavi meccanici alimentati da energia inanimata” – efficace ed icastica definizione data da Carlo Maria Cipolla -, ha creato una profonda frattura tra società ed agricoltura, impedendo di vedere nell’acqua, “madre” dell’agricoltura, un elemento da preservare e curare. L’affermazione dell’homo oeconomicus ha relegato entrambe ai margini delle attività economiche, con una perdita di centralità che, fatta in nome della presunta maggiore razionalità della visione utilitaristica, ha invece prodotto una quantità di problemi – dilavamento dei suoli, salinizzazione delle acque, abbassamento delle falde, inquinamento, ecc. – che hanno smentito, nei fatti, la strada scelta.

In epoca di cambiamento climatico, invece di volgersi alle esperienze passate, fatte nei territori in cui l’acqua si manifestava attraverso fenomeni simili a quelli che oggi vediamo in Valle Padana, preferiamo puntare su un utilizzo ancora più sofisticato e spinto della tecnica. In realtà il punto debole di questa forsennata ricerca di innovazione risiede nell’uso efficiente delle risorse, un sistema apparentemente più razionale ed organizzato, in realtà più semplificativo, che organizza i due fattori indispensabili per la crescita delle piante (acqua e calore) in funzione di altre attività ritenute prioritarie. L’acqua, che è alla base dei fattori limitanti e che permette la vita delle piante senza le quali l’uomo e gli animali non potrebbero esistere, viene sottratta al sistema-pianeta o addirittura utilizzata contro di esso, quando i prodotti dell’uomo spezzano il ciclo dell’acqua che tutti abbiamo studiato a scuola (sorgente-fiume-mare-evaporazione-nuvole-pioggia). Quando si progettano industrie, edifici, strade, si dovrebbe tenere conto di questo ciclo , ancor prima di pensare ai materiali, ai costi, alle manutenzioni.

In un vecchio libro di Rachel Carson, “Il mare intorno a noi”, la cui prima stesura risale al 1951, nel descrivere la straordinaria storia del mare, sofferma la sua attenzione sulle correnti e sui circuiti delle acque che precedono di gran lunga l’emersione delle terre del pianeta. Questi circuiti andrebbero analizzati, studiati, rispettati perché essi si manterranno costanti, a dispetto delle terre emerse il cui andamento viene interrotto dalle acque che ne tracciano il territorio: non sono le acque che si adattano alle montagne, ma succede il contrario, come dimostra, ad esempio, il Colorado che, nello scendere dalle Montagne Rocciose, sceglie la via apparentemente più difficile per tale motivo, tagliando le montagne.

E se ripensiamo alla bonifica, questo strumento che ha trasformato l’Italia, il suo paesaggio e la tipologia delle produzioni, vale la pena riflettere sul valore e sulle conseguenze che ha comportato la razionalizzazione delle risorse idriche in funzione della progressiva affermazione del mercato e delle politiche del Nord rispetto al Sud del mondo. La criticità dell’attuale situazione in Romagna non viene tanto dalla necessita di ricostruzione rapida, quanto dal come essa dovrà avvenire, perché i fenomeni di siccità/alluvioni sono destinati a ripetersi costantemente, abbinate ad un progressivo ulteriore innalzamento delle temperature. In tale contesto il modello di concentrazione e specializzazione delle strutture produttive (agricole in primo luogo) risulta dannoso.

Prima dell’avvento della società industriale-capitalistica sarebbe parso ridicolo considerare un segno di sviluppo il consumo di acqua pro-capite, per non parlare dei parametri che in agricoltura fanno considerare “ricche” le colture a massima richiesta idrica e che quantificano l’irrigazione con parametri che ne certificano – in sostanza – lo spreco. Questi parametri collocano tra le regioni poco sviluppate i terreni delle aree dell’est e del sud dell’Asia, assieme a quelli della regione mediterranea, nonostante in esse l’irrigazione tocchi percentuali superiori al 15% e che rappresentino la larga maggioranza delle terre irrigate del pianeta. Questo perché le tecniche di utilizzo dell’acqua “per gravita”, a basso costo ed a bassissimo consumo energetico, sono considerate arcaiche; per quanto attraverso sistemi molto sofisticati si possa attuare un risparmio idrico, nella civiltà dei consumi solo un uso forsennato della risorsa-acqua può essere considerato sinonimo di sviluppo. Di conseguenza, i modelli utilizzati sono quelli della società industriale: le reti idriche nelle nostre campagne assomigliano sempre di più alle reti autostradali, con un numero sempre maggiore di vasche e canali disponibili (che ora si chiede di aumentare ulteriormente), inutilizzati per la maggior parte del tempo e del percorso, e irrimediabilmente sovraccarichi quando sarebbe necessario che fossero liberi.

Le immagini che abbiamo visto sono una metafora (tragicamente reale) della fine di questa civiltà dello sviluppo e del consumo, in cui lo spreco delle quantità si unisce al degrado qualitativo delle risorse.
Perché oggi in Romagna non abbiamo soltanto una riduzione della disponibilità di acqua potabile ma, con la distruzione delle industrie, dei magazzini, delle reti idriche e fognarie avvenuta con l’alluvione e con il ristagno del fango, si realizza l’inquinamento del territorio e delle acque da sostanze tossiche non solo di origine biologica. La ricostruzione dovrà porre rimedio a questo fenomeno che, manifestatosi sino ad ora in modo sommerso, ha avuto piena visibilità con l’inondazione.

Non credo all’immaginario della “guerra infinita”, che ci vedrà lottare per il possesso delle risorse, sviluppando tecnologie fantascientifiche per combattere i limiti che la natura ci impone. Per far fronte alle crisi che cambiano il territorio occorre riconoscere la centralità dell’acqua e dell’agricoltura, mutando quest’ultima in funzione del clima.

Sarà necessario praticare tecniche di conservazione e applicare i principi della complessità al servizio di una cultura della sobrietà, l’unica in grado di combattere efficacemente la diminuzione delle risorse disponibili e la connessa paura di “fine del benessere”.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

 

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