Dal 29 maggio al 2 giugno si sono incontrati a Parigi le
delegazioni di 175 paesi per la stipula di un trattato comune
sull’eliminazione della plastica la cui produzione globale annuale
ha raggiunto i 460 milioni di tonnellate e potrebbe triplicare entro il 2050.
Ecco come è andata a finire
Si è conclusa con un rinvio la seconda sessione del comitato sulla Plastic Pullotion, tenutasi a Parigi presso la sede dell’UNESCO dal 29 maggio al 2 giugno scorsi, per arrivare a un accordo globale sull’eliminazione della plastica tra i 175 Paesi presenti.
Il primo summit si era tenuto nel 2022 in Uruguay, Punta del Este. Il tentativo di arrivare all’adozione di un documento condiviso e vincolante non si era concluso favorevolmente poiché i soliti paesi, Usa e Cina con l’aggiunta dell’Arabia Saudita, si sono opposti con il pretesto di preferire ad una strategia globale, l’adozione di politiche nazionali mirate, distinguendo tra la plastica inquinante e quella invece necessaria alle politiche di sviluppo economico degli Stati (!?).
Quest’anno è andata un tantino meglio, a voler vedere sempre un bicchiere mezzo pieno, ed è stata concordata una risoluzione per arrivare ad una prima bozza di un trattato globale, ma entro la fine del 2024. Ma, almeno, l’accordo è stato raggiunto all’unanimità durante la sessione plenaria del Comitato Internazionale di Negoziazione (qui), l’Intergovernmental Negotiating Committee (INC, qui), promosso dal “Programma Ambientale” delle Nazioni Unite (qui). Una “bozza zero” del trattato globale dovrebbe essere redatta in meno di sei mesi e centinaia di Paesi ne discuteranno il testo a Nairobi, il prossimo novembre
L’obiettivo del futuro trattato contro l’inquinamento da plastica è ambizioso e mira a diminuire la produzione globale annuale di plastica, che ha raggiunto i 460 milioni di tonnellate e potrebbe triplicare entro il 2050. Solo il 9% della plastica prodotta viene riciclata, mentre il resto rappresenta il 3,4% delle emissioni globali (dato del 2019), una cifra che potrebbe più che raddoppiare entro il 2060, secondo l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).
Abbiamo più volte scritto delle grandi isole di plastica (almeno cinque, secondo le rilevazioni), che galleggiano negli oceani. La più grande di esse si trova tra Giappone e Stati Uniti. Il “Great Pacific Garbage Patch” (la Grande Immondizia del Pacifico) e ricopre una dimensione che, a seconda delle condizioni meteorologiche, va dall’estensione del territorio della Spagna a quella degli Stati Uniti. Un “sesto continente” terrestre fatto di plastica che nel 2013 ha portato la fondazione olandese Ocean Cleanup (qui) ad avviare una campagna per pulire, almeno in parte, la superficie dell’oceano. Negli ultimi due anni Ocean Cleanup ha rimosso più di 200 tonnellate di plastica dal 2021, un quarto della superficie dell’isola di immondizia. Droni acquatici, cestini galleggianti, navi mangia plastica, barriere nei fiumi, possono fare la loro parte. Ma, attenzione, alcune iniziative di pulizia degli oceani, sono molto controverse perché spesso sono oggetto anche di pratiche di greenwashing da parte dei grandi marchi. E, non dimentichiamo, che quello che si vede in superficie è solo l’1% di tutti i rifiuti sparsi nell’Oceano Pacifico (stima di Melanie Bergmann, biologa all’istituto Alfred Wegener, secondo cui “è molto probabile che inaliamo plastica”, qui).
Abbiamo più volte scritto, anche, quanto più preoccupanti siano le microplastiche (vedi qui), che raggiungono anche i fondali degli oceani e che per le loro ridotte dimensioni entrano nelle catene alimentari dei pesci e degli umani. E oramai le microplastiche si trovano dappertutto, non solo nel mare ma anche nei fiumi, nelle foreste, nelle montagne, uccidendo flora e fauna.
“Il punto è che la plastica è stata per troppo tempo l’opzione predefinita nel design. L’usa e getta è stata l’opzione predefinita del design per troppo tempo. Lasciare che le comunità povere si guadagnino da vivere con gli scarti di plastica lasciati da altri è stata l’opzione predefinita per troppo tempo. È ora che i chimici, i produttori e gli ingegneri di processo diventino creativi. È tempo che i governi siano creativi. È ora che i consumatori diventino creativi”, ha detto Philippe Franc (Delegato permanente della Francia presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura) e noi concordiamo. Solo con un approccio all’inquinamento di tipo circolare, che tenga conto dell’intero ciclo di vita dei prodotti, dalla produzione al consumo, troveremo delle soluzioni.
Ma la soluzione migliore va trovata a monte: per eliminare la plastica nell’ambiente bisogna produrne meno. Le Nazioni Unite puntano a far firmare entro la fine del 2024 un trattato internazionale con impegni vincolanti che coprano tutti gli aspetti del ciclo di vita della plastica, dalla sua produzione allo smaltimento. Dicevamo che i primi colloqui sono iniziati a novembre 2022, ma la strada è in salita.
Abbiamo sempre creduto poco all’efficacia risolutiva degli accordi tra Stati che non siano fortemente sostenuti da un moto di coscienza popolare.
Dipende anche da noi. Bisogna fare in fretta.
Federica Rochira, Website Founder
P.S. Abbiamo parlato dell’ostruzionismo di Usa, Cina e Arabia Saudita, ma anche l’Italia non ha firmato la dichiarazione ministeriale dell’High Ambition Coalition (una coalizione tra Stati, compresa l’Italia, per sviluppare uno strumento giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica) [qui] di preparazione della riunione parigina.
(F.R.)