In un’epoca di cambiamenti globali la modifica del PNRR (Piano
Nazionale di Ripresa e Resilienza) sembrerebbe quasi un adeguamento
necessario. Il PNRR dovrebbe realizzare grandi investimenti e dovrebbe
trarre beneficio dalla fissazione di date certe di transizione, ma il sistema
d’impresa si sente impreparato e preferisce ricevere finanziamenti come
in passato e prolungare indefinitamente la transizione
Al programma dato a suo tempo alle autorità comunitarie se ne sostituisce un altro, con alcune priorità diverse, decisione legittima dopo un cambio di governo, anche se lascia un po’ di vittime sul campo. Si chiude il finanziamento di alcuni progetti, e non si chiarisce se a questi cambiamenti seguirà anche un cambiamento di direzione rispetto a quella concordata. Le autorità di Bruxelles – è bene tenerlo sempre presente – ci hanno dato in prestito il danaro accumulato da tutti i Paesi della UE sotto la loro responsabilità e non vedrebbero di buon occhio questo secondo aspetto, per cui chiarirlo sarebbe più che opportuno. Ma svelare i motivi del mutamento di programma dopo il pagamento della seconda tranche di aiuti, sarebbe per il governo come svelare il segreto del prestigiatore durante il suo spettacolo, perché gli aiuti dati all’Italia sono stati inquadrati all’interno dell’Agenda 2030 dell’ONU (sottoscritta da tutti i Paesi, compreso il nostro) e di una serie di Piani comunitari che ad ogni capitolo riaffermano l’obiettivo della lotta contro il cambiamento climatico e per la sostenibilità degli interventi.
Peccato la nuova scrittura del PNRR avvenga per necessità non collegate a questi obiettivi (anzi!) e con finalità che confermano una tradizione da curatore fallimentare in una economia di mercato: salvare la parte più conveniente e tagliare quello che non ha convenienza immediata. Una “filosofia” che interpreta la resilienza del Piano come un adattarsi a quello che c’è: se è andata bene sin qui, perché non ora? E perché non dopo? Quindi si investe dove è più redditizio. Per far accettare i cambiamenti senza troppe difficoltà, si punta sulla priorità data all’efficienza economica, fidando sul fatto che per Bruxelles questa è una nota sempre gradita. Naturalmente, come il curatore fallimentare, il governo lavora pro domo sua e tra tutte le possibili soluzioni sceglie quella a lui più conveniente; non è detto che lo sia per l’insieme della società, a maggior ragione per la parte oggi in difficoltà che ha redditi bassi tagliati dall’inflazione.
Questo giustifica il rumoreggiare delle opposizioni e soprattutto degli amministratori locali che vedono messe in discussione le scelte già avviate dove loro ci hanno “messo la faccia”. Ma per essere arrivati a questo punto, è largamente probabile che ci siano responsabilità dei governi passati, anche locali, quantomeno per la sottovalutazione data ad alcuni aspetti.
Per rimanere su di un discorso economico, l’inflazione non è un fatto negativo per chi è indebitato (come il nostro governo) che vede così ridursi il debito, come non è negativa la quantità di tasse indirette (come le accise sulla benzina) che permettono di incassare senza impegno amministrativo e senza andare a caccia della fetta consistente di imprese (valutazioni ufficiali) che evade il fisco; ecco una delle ragioni dell’attuale apparente immobilità del governo. Certo, chi ha un reddito fisso e/o limitato, vede peggiorare le proprie condizioni ma, per i liberisti al governo, c’è la mano invisibile del mercato che dovrebbe intervenire attraverso le imprese “capaci” che aumenterebbero i loro fatturati, soprattutto esportando, ed assumerebbero, riaprendo il ciclo economico. Peccato che, anche in questo caso, il cambiamento climatico abbia fermato le aziende nella zona più produttiva, le guerre abbiano bloccato i porti, la siccità abbia fermato persino le navi nel canale di Panama e tutte queste cause hanno fatto fuggire le persone come formiche impazzite, andando incontro allo stesso tragico destino.
Le catastrofi ricorrenti sono sempre state trattate dai nostri governi come emergenze, la ricostruzione è sempre stata guidata da Commissari scelti sulla base dell’affidabilità politica e, in genere, poco efficienti (salvo nel caso del terremoto dell’Emilia Romagna di qualche anno fa, dove Bonaccini, da Commissario, fece un egregio lavoro, dando un motivo consistente per la sua attuale esclusione dalla nomina). La scelta rivolta verso persone condiscendenti ai voleri politici invece che competenti ha segnato il ventennio trascorso e, se vogliamo trovare una ragione più profonda, occorre guardare alle imprese ed al loro mancato rinnovamento o, spesso, alle innovazioni tardive a cui controvoglia esse si sono adattate.
In un lavoro svolto dagli economisti del gruppo Alliance, una società conosciuta soprattutto per le assicurazioni, i cambiamenti climatici sono stati considerati una delle cause di perdita del PIL, soprattutto nei Paesi meno industrializzati, aggravata dalla assenza di strategie di resistenza (o di resilienza) da parte degli Stati. Strategie come l’ottimizzazione degli orari, il lavoro mattutino o serale e l’utilizzo di meccanismi di raffreddamento passivo delle residenze o dei luoghi di lavoro, possono dare risultati promettenti nell’immediato, e in parte i governi italiani si sono mossi in questa direzione. Ma a lungo termine dovrebbero essere integrate con misure di adattamento strutturale volte a preparare le città al cambiamento climatico, come, per esempio, l’inverdimento urbano o il decentramento dei servizi e la prevenzione sanitaria.
Si dice che nei dettagli si vede il diavolo: ho letto un provvedimento di finanziamento per poche centinaia di milioni di euro volto all’ammodernamento del parco macchine per l’agricoltura, per le piccole e medie imprese del settore, un finanziamento marginale rispetto alle cifre astronomiche in gioco. Nei dettagli delle condizioni per accedere, non c’è un cenno alla sostenibilità, all’utilizzo dell’agroecologia, all’impiego di attrezzature mosse da energie rinnovabili, al rientro in progetti di costruzione di comunità energetiche ed economia circolare, aspetti che dovrebbero essere prioritari per sostegni (sia pure limitati) e stimolo al cambiamento. Pensiamo che la rottamazione dei trattori ed i droni dell’agricoltura di precisione siano l’unico futuro disponibile per il settore?
Il PNRR dovrebbe realizzare, invece, i grandi investimenti a cui accennavo prima e dovrebbe trarre beneficio dalla fissazione di date certe di transizione; ma il sistema d’impresa si sente impreparato e preferisce ricevere finanziamenti come in passato e prolungare indefinitamente la transizione.
Dovremmo chiederci in fretta se questa sia la prospettiva e mutarla se vogliamo prevenire l’ennesimo effetto negativo del cambiamento climatico sul benessere comune.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti