È evidente la necessità, di stabilire dei criteri interpretativi
utili ad avere la certezza che, all’utilizzo del termine
“sostenibile” attribuito al prodotto o servizio pubblicizzato,
corrispondano effettivamente valori ambientali, sociali ed
economici, superando “l’insostenibile leggerezza della
pubblicità”, per parafrasare Milan Kundera
Proseguo le mie considerazioni sulla sostenibilità, iniziate la settimana scorsa (“Sostenibile è …” lo trovate qui). Parlavo dell’uso, diffusissimo, di riferire ai propri prodotti e beni l’aggettivazione “sostenibile”, inteso come vanto o qualità green ed ecologica. Dicevo pure che quel tipo di sostenibilità, non può venire usata se non quando l’azienda rispetta tre fattori chiave per misurarla: la tutela dell’ambiente; la salvaguardia di principi sociali ed economici (governance).
Esiste ormai un acronimo che sintetizza i tre fattori: ESG, Environmental, Social e Governance, nato in riferimento alla finanza sostenibile ma ormai riferibile ad ogni attività d’impresa che abbia l’obiettivo di fregiarsi del termine sostenibile.
I fattori ambientali si riferiscono al modo in cui un’azienda si comporta nei confronti del nostro ambiente naturale: il contributo al contrasto ai cambiamenti climatici; l’impronta ecologica e le emissioni di CO2; la gestione di risorse naturali come l’acqua e la biodiversità; la gestione dei rifiuti; le tecnologie pulite e le energie rinnovabili.
I fattori sociali devono comprendere il capitale umano; la sicurezza, la salute e la formazione continua dei dipendenti; la responsabilità per il prodotto, la sua sicurezza, la gestione dei dati; le possibilità e le opportunità nella sfera sociale.
La governance attiene ad una solida organizzazione aziendale, alla composizione del consiglio di amministrazione e della direzione, ai compensi e all’assetto proprietario; alla conduzione aziendale per quanto riguarda l’etica, la trasparenza e la prevenzione della corruzione.
I tre fattori devono coesistere, se si vuole parlare veramente di sostenibilità. E la sostenibilità può (e, in alcuni casi, deve) essere comunicata e deve essere costante, verificabile e certificata da soggetti terzi rispetto all’azienda.
Ma è divenuta ormai pratica ripetuta e consuetudinaria, senza più alcuna distinzione per categorie merceologiche o settori di servizi, il cosiddetto green advertising, cioè la realizzazione di campagne pubblicitarie finalizzate ad attirare l’attenzione del consumatore sulle questioni ambientali. Ed esso si esplica, prevalentemente, attraverso l’utilizzo di claim pubblicitari quali “green” e -appunto-, “sostenibile”, “sostenibilità”. Di questa pratica si sta ormai ingannevolmente abusando, in Italia ma anche all’estero; quando i richiami ai valori ambientali, sociali e di governance non corrispondono, o corrispondono in modo relativo, alla realtà fattuale: è il cosiddetto greenwashing.È quindi evidente la necessità, di stabilire almeno delle linee guida o dei criteri interpretativi utili al consumatore per avere la certezza che all’utilizzo di questa terminologia corrispondano effettivamente valori ambientali attribuiti al prodotto o servizio pubblicizzato, superando “l’insostenibile leggerezza della pubblicità”, per parafrasare Milan Kundera.
Un tentativo in tal senso sta portando avanti, sin dal 2014, l’ufficio dell’Ombudsman danese che, nel 2021, ha emesso una “Guida rapida per le aziende su marketing ambientale”. Il Difensore Civico della Danimarca chiarisce in più punti come devono essere confezionate le dichiarazioni climatiche/ambientali sia in riferimento all’etichettatura dei prodotti, che in riferimento alle loro pubblicità. Premettendo in via generale che le dichiarazioni sul clima o sull’ambiente utilizzate in pubblicità devono essere corrette (questo, ovviamente, vale anche per la legge italiana), si afferma di poi che le stesse vanno chiaramente formulate in modo che i consumatori le comprendano immediatamente, senza omettere informazioni importanti. Nelle pubblicità le qualità vantate dalle aziende devono essere documentate; inoltre viene richiesto al professionista di documentare la concretezza dei benefici per il clima o l’ambiente che non devono avere una rilevanza marginale.
Un intero capitolo è dedicato all’uso di dichiarazioni sulla sostenibilità, dove si afferma che le dichiarazioni di sostenibilità (e quindi l’utilizzo dei termini “sostenibile”, “sostenibilità “) devono basarsi su un’analisi del Ciclo di Vita del prodotto o servizio che dimostri che l’azienda non pregiudica la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni. E così ancora, conclude l’Ombudsman danese, affermando che è molto difficile definire un prodotto/servizio come “sostenibile”, senza fuorviare. La correttezza della pubblicità deriverà -sempre a parere dell’Autorità danese- dal fatto che l’azienda abbia un piano concreto su come raggiungere la sostenibilità, che deve essere verificato da un organismo indipendente. Il piano deve risultare nella pubblicità del prodotto/servizio, deve essere continuamente migliorato/sviluppato specificando in che modo i danni per l’ambiente vengono gradualmente ridotti e il che deve essere verificabile. Altrimenti la pubblicità sarà ingannevole per il consumatore.Anche in Europa ci si sta muovendo in questo senso e, se Consiglio e Parlamento UE approveranno lo schema di direttiva proposto, tutti i claims a contenuto ambientale saranno proibiti se le aziende non riusciranno a dimostrare che i prodotti hanno effettivamente prestazioni ambientali eccellenti.
Ma, a giudicare dalle pubblicità in circolazione, la sostenibilità, se non la si ha nei fatti, la si può acquistare. Si chiamano crediti di carbonio: né parlerò la prossima volta.
Giuseppe d’Ippolito