La prevenzione oggi è vista soprattutto come
un insieme di campagne di informazione e formazione,
mentre riguarda non solo lo stile di vita individuale e la
nostra capacità di avere coscienza dei problemi, ma la
cooperazione e la solidarietà tra umani e tra altri viventi
È interessante (anche se un po’ noioso) seguire per qualche giorno i rapporti annuali di un paio di associazioni (GIMBE e OISED) che valutano rispettivamente la Sanità italiana nell’insieme e la situazione dei consumi e delle dipendenze da abusi. Sono dati e rapporti accessibili a tutti, che faremmo bene a guardare. Anch’io ho trovato molto da imparare e, soprattutto, ho visto la prevenzione sotto una luce molto meno ipotetica: fare prevenzione non è una chimera, non dobbiamo inventare niente di più e di originale. Spesso basterebbe solo evitare di fare il gesto che i più ritengono normale e giusto e che, invece, è il più insensato: trovare un surrogato qualunque di felicità o aumentare ciò che oggi si chiama impropriamente “sicurezza”.
Vi chiederete cosa c’entra un discorso generico sulla società con i problemi sanitari, che spesso sono specifici e ben identificabili? C’entra, perché la prevenzione, che oggi è vista soprattutto come un insieme di campagne di informazione e formazione, riguarda non solo lo stile di vita individuale e la nostra capacità di avere coscienza dei problemi, ma la cooperazione e la solidarietà tra umani e tra altri viventi.
Partiamo innanzitutto dai dati drammatici del costo sanitario in aumento e della progressiva riduzione del suo finanziamento (si prevedono riduzioni sempre maggiori per l’aumento degli interessi del debito pubblico) ormai largamente affidato alle tasche di ciascuno di noi attraverso il perverso sistema delle convenzioni o del “privato”, dove i costi strutturali li paghiamo tutti. Non illudiamoci che, privatizzando tutto, si riducano i costi per lo Stato: lo Stato è coinvolto direttamente nel sistema finanziario delle società che lo gestiscono (ne sostiene i costi finanziari), ed è privato a sua volta degli utili, costruiti (si badi bene!!!) sull’accoglienza della struttura e non sui servizi medicali. Ad esempio, se ci si opera privatamente per una qualunque patologia, il costo che sosteniamo, oltre a quello della struttura, costruita in buona parte con danaro pubblico, non si basa sulla “qualità” dell’intervento (spesso si tratta degli stessi medici che operano o hanno operato in precedenza nel pubblico o di giovani in via di formazione) ma sul costo dell’ospitalità da hotel cinque stelle che viene attuata nei luoghi più rinomati. Se scorrete i dépliant illustrativi di queste cliniche private e li confrontate con quelli degli hotel nelle stesse località potrete farvi voi stessi un’idea dei servizi che vengono offerti.
La parte più istruttiva dei rapporti prima citati è data dai costi generali della Sanità e dalla loro distribuzione (spendiamo 800 € in meno a persona degli altri Paesi OCSE e 1500 € in meno se valutiamo i dati dei Paesi UE); oltre alle consistenti differenze regionali e territoriali all’interno della stessa regione, esiste un “mercato degli interventi” che ricorda molto, a me che ho studiato il mercato dei prodotti agricoli, quello che esisteva tra i diversi Stati comunitari prima della formazione del mercato comune europeo (MEC). Ogni anno ciascuna regione italiana redige un prezziario degli interventi convenzionati; le variazioni del costo dei vari interventi a livello regionale, stimolano la concorrenza tra strutture private e spingono i malati (chiamati ora utenti) ad un turismo sanitario: se la cataratta verrà pagata meglio in Toscana, ad esempio, la struttura che la svolge sarà stimolata ad aumentare il numero di pazienti, mentre ridurrà il numero delle ernie che, a loro volta, saranno indirizzate nel Lazio, dove vengono pagate di più. Quello che vedevamo fare ad Alberto Sordi nel film “Il medico della mutua” è roba da educande rispetto a quello che oggi è legalmente consentito: allora ridevamo, oggi viene da tutti accettato, tanto da prevedere di rendere costituzionale il sistema di disparità regionale, invece di ridurlo. L’esperienza storica del MEC dovrebbe ricordarci come la cooperazione tra Stati ed il sistema unico di mercato garantì l’approvvigionamento alimentare e il miglioramento della nutrizione del continente (con la riduzione dei costi sanitari). Oggi nella Sanità si mina questo sistema unitario istituito a livello nazionale e non se ne colgono le conseguenze disastrose.
Le eccellenze che talune regioni esaltano, costituiscono lo specchietto per le allodole per lucrare su altri servizi, in un sistema di mercato in cui conta la gestione economica e non quella sanitaria legata ai risultati sociali e ambientali. La pandemia ha mostrato la fragilità di un sistema glamour come quello lombardo, dove, ad esempio, la costruzione di una struttura enorme per ospitare i malati non ha ridotto il numero delle vittime, a mio parere, più di quanto avrebbe potuto farlo l’investimento della stessa somma per creare strutture di accoglienza ed isolamento molecolare, dove l’assistenza e la cooperazione non si basassero su mega-commesse unite a turni di servizio massacranti, ma si fondassero sulla solidità della cooperazione locale, familiare, addirittura condominiale, distribuendo i costi a livello capillare.
I dati del costo delle dipendenze (alcolica, da stupefacenti) sono impressionanti: ogni anno si spendono circa 8, 5 miliardi di euro per tale motivo. Si tratta, è bene dirlo, in massima parte di costi sostenuti dal sistema (e dai privati) non per finanziare il settore; questo dato incide solo per il 20-25 %. Spendiamo a causa di incidenti stradali, di “sicurezza”, di detenzione, il resto di questa somma. E più ridurremo il finanziamento per l’assistenza e la prevenzione (che non si deve intendere solo informazione nelle scuole o altro di similare, ma assistenza psicologica e materiale alle persone ed alle famiglie), più aumenteranno i costi inutili sostenuti e non si ridurrà il numero degli effetti da patologia da dipendenza.
Coloro che plaudono a chi dice, parlando di ubriachi alla guida o di tossicodipendenti, “sono delinquenti, mettiamoli dentro e buttiamo la chiave!” devono essere consapevoli che ogni euro sottratto alla prevenzione ed assistenza in questo campo, comporta un aumento di quattro euro del costo di altri interventi che non migliorano la nostra vita, perché rafforzano (direttamente alcuni, indirettamente altri) i sistemi che minano la sicurezza nella nostra società. Mettere in carcere un tossicodipendente o un ubriaco non ne ridurrà il numero (dovuto ad altre cause) e offrirà più spazio alle strutture criminali.
Tornando alla prevenzione fondamentale, quella che si realizza attraverso la nostra alimentazione, l’aria che respiriamo ed la vita che conduciamo, non esistono “integratori di felicità” e tutti sanno che, in un momento di depressione, un bel cucchiaio di una crema di nocciola zuccherosa ci rende più felici, ma anche più obesi; che ogni sorso di una bevanda dolce e frizzante ci rinfrescherà il palato, ma minerà lo smalto dei nostri denti e la tenuta del nostro stomaco; che mangiare molto di tutto ci appagherà, ma nel passare degli anni ci farà spendere più in farmacia che non al supermercato.
Ammesso che avremo il denaro per farlo.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti