Il meccanismo della “compensazione” oggi è spesso usato per poter
utilizzare il termine “sostenibile”, sostituendo l’impegno sociale e
ambientale nella propria attività, con un impegno finanziario
Continuando sull’argomento degli scorsi interventi (“Sostenibilità è …”, qui e “L’insostenibile leggerezza della pubblicità”, qui), passo ora a parlarvi di come un’azienda con i suoi prodotti possa qualificarsi “sostenibile”, senza operare nessun intervento per diminuire la propria impronta ecologica. Pratica purtroppo molto diffusa e abusata nelle comunicazioni pubblicitarie ma ancora sotto esame, in Italia, nella valutazione della sua legittimità.
Si chiama “compensazione” o, anche, “carbon offsetting” quel meccanismo che permette alle imprese di compensare le proprie emissioni di CO2 o di altri gas a effetto serra (misurati in anidride carbonica equivalente, CO2E) in un determinato posto, attraverso il supporto a progetti, realizzati altrove, di riduzione delle emissioni, i quali assorbono o evitano la CO2. Tale meccanismo si realizza attraverso l’acquisto di cosiddetti “crediti di carbonio”, dove un credito di carbonio corrisponde a una tonnellata di CO2 assorbita o evitata dal progetto. Non sarebbe una cattiva idea, se incidesse sulle emissioni strutturali e tipiche di una determinata attività d’impresa, diventa una pessima idea se utilizzata nelle attività ulteriori o residuali di quella stessa azienda.
Mi spiego con un disegnino narrativo: poniamo che un’azienda emetta, nella propria ordinaria attività, 100 unità di gas effetto serra; poi decida di ampliare il proprio business con un nuovo settore produttivo che emette 30 unità di gas; quindi, acquista 30 crediti di carbonio per compensare la nuova emissione; 100+30-30= 100, il risultato è che quella attività continua ad inquinare 100 e il contributo per il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050 è praticamente nullo. Ma c’è di più, quell’attività di compensazione viene esaltata in claim pubblicitari (ovviamente, a supporto della vendita di nuovi prodotti o servizi) per ricostruire la perduta verginità ambientale da quella determinata azienda inquinante o per sostenere attività di marketing nelle quali i temi della difesa dell’ambiente e della sostenibilità ecologica e ambientale, acquistano valore agli occhi dei clienti e degli investitori.
Il meccanismo che trasforma in impegno finanziario quello che dovrebbe essere un impegno sociale e ambientale non è nuovo o unico alle nostre latitudini: meccanismo non diverso da quello delle cosiddette “quote latte” per la sovraproduzione casearia, dei “certificati verdi” per le rinnovabili, del mercato delle “garanzie d’origine” per l’energia pulita, ecc. Lo possiamo tradurre in un “paghi e superi i limiti del consentito”. Ma la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, il contrasto dei mutamenti climatici, la tutela della salute, possono essere oggetto di mercato? Gli stati pensano di si, se è vero, come è vero, che l’introduzione dei mercati regolamentati risalgono al Protocollo di Kyoto del 1997 e prevedono lo scambio di “quote di emissione” tra aziende e governi, i quali sono vincolati per legge a rendere conto delle loro emissioni di gas serra, con la finalità di trarre profitto dalle quote non utilizzate (CO2 non emessa) o raggiungere obiettivi normativi predeterminati.
Il mercato volontario del carbonio emerse parallelamente all’attuazione del Protocollo di Kyoto per i settori non inglobati dal mercato normativo. Ma, per fortuna, negli anni, l’idea della compensazione delle emissioni di CO2 riferita al carbon offsetting, ha acquisito una connotazione negativa proprio perché suggerisce l’azione di comportamenti negativi e privi di una definizione comune. Sembra quasi ovvia l’idea che occorre sì sostenere progetti di riduzione delle emissioni, ma in parallelo alle ordinarie azioni di riduzione, per contribuire alla neutralità del carbonio globale (senza l’obiettivo di compensare un comportamento negativo). Più riduciamo le nostre emissioni e contribuiamo a progetti che riducono le emissioni di CO2, maggiore è l’impatto che possiamo avere nell’affrontare il cambiamento climatico. In poche parole, lo sforzo dovrebbe essere duplice e combinare misure di riduzione all’interno della filiera produttiva di un’impresa, sostenendo al contempo, in modo trasparente, progetti che evitino o catturino le emissioni al di fuori della loro tradizionale filiera produttiva. Credo che le imprese dovrebbero far riferimento al concetto di neutralità del carbonio a livello globale, come l’equilibrio complessivo tra gas serra rilasciati nell’atmosfera e gas serra assorbiti. Va quindi sottolineato che il carbon offsetting deve sempre essere associato a pratiche di riduzione delle emissioni di CO2 perché sia un’azione valida ed efficace.
Secondo l’ultimo rapporto di Science Based Targets, SBT (qui), le misure di compensazione e neutralizzazione della CO2 (carbon offsetting) giocano un ruolo critico nell’accelerare la transizione verso le zero emissioni nette a livello globale, ma “non sostituiscono la necessità di ridurre le emissioni di CO2 nella catena di valore aziendale in linea con le ultime scoperte scientifiche“. Il rapporto spiega che gli sforzi di riduzione potrebbero non essere sufficienti per raggiungere l’obiettivo di 1,5°C fissato dall’Accordo di Parigi per via delle emissioni residue, le emissioni che un’azienda non vuole ridurre a causa soprattutto di vincoli tecnici o economici. Pertanto, la compensazione delle emissioni di CO2, diviene una misura necessaria per raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nette a livello globale, solo se in parallelo alla riduzione.
Comunicare in modo non globale, diffondendo qualità riferite solo alle compensazioni per le attività diverse da quelle della propria filiera tradizionale, per affermare la sostenibilità della propria attività d’impresa, non aiuta l’ambiente ed è anche ingannevole per i consumatori. Per questo motivo, ClimateAid Network e l’ACU Associazione Consumatori Utenti, hanno depositato presso l’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) negli scorsi mesi ben 20 segnalazioni contro altrettante aziende, ipotizzando casi di greenwashing.
Ma questo sarà l’argomento di un mio prossimo intervento, anche prendendo spunto da un nostro ultimo sondaggio su queste pagine, dal quale è emerso che 54% dei partecipanti hanno dichiarato di non sapere cos’è il greenwashing e di volerlo sapere, a fronte di un 46% che lo conosce.
Giuseppe d’Ippolito