Che fosse necessario orientare in senso ecologico il sistema
agricolo e ridurre le risorse impiegate, le produzioni e l’inquinamento
prodotto, era chiaro già venticinque anni fa: nelle discussioni avute sin
da allora, vi era chi proponeva di avviarsi su questa strada attraverso
regole rigide e chi riteneva che si dovesse evitare di dare all’agricoltore
qualsiasi contributo, finanziando invece gli investimenti  necessari
per migliorare l’assetto ecologico.
Cosa propone ora la UE per riformare la PAC?

Mentre il genere umano mostra il suo volto criminale, dall’Ucraina a Gaza, e ci lascia senza parole, incapaci di dare un senso a ciò che accade, la vita altrove prosegue, cercando una normalità che sembra “un porto in cui cercare quiete”. In questo clima, avanza la necessaria riforma della Politica Agricola Comunitaria (PAC), la cui sorte dipende, più del passato, da una situazione internazionale ed economica che è difficile da controllare e su cui mancano idee chiare. Questa scarsa chiarezza si ripercuote sulle scelte da fare per rendere l’agricoltura funzionale agli obiettivi della Unione Europea che vorrebbe un’agricoltura “più equa, più verde e maggiormente orientata ai risultati”, volta a fare dell’attività agricola il principale motore di tutela ecologica.

Ma siamo tutti d’accordo? Perché nei decenni passati il forte orientamento al mercato (diventato un’ossessione per gli agricoltori), la sempre maggiore dipendenza dalle industrie petrolchimiche e dalle grandi compagnie agroalimentari, hanno trasformato la mentalità dei produttori: il profitto e la redditività sono diventati il principale obiettivo, spesso a scapito dell’ambiente e della qualità dei prodotti. Lo vediamo tutti i giorni acquistando prodotti senza sapore nei supermercati, respirando un’aria “puzzolente” se passiamo accanto ad un campo in cui spruzzano antiparassitari, guardando i fiumi o gli stagni che diventano verdi a causa delle alghe che si nutrono dei concimi dilavati dalle campagne, dove vengono dati in grande quantità per mantenere alto il livello produttivo.   Questi effetti, che tutti possono constatare direttamente, sono il risultato del fallimento delle politiche agricole sino ad ora attuate, fallimento parziale ma significativo. Tanto, da avere causato dal 1992 in poi uno stato di costante riforma della PAC, parzialmente cambiata ogni cinque anni. Cambiamenti che, visti a distanza di anni, altro non significavano che il fallimento dell’ingresso dei prodotti agroalimentari nel sistema di commercio mondiale, allineati con le regole delle transazioni finanziarie.

La grande riforma McSharry partita nel 1992 liberò il sistema agricolo dalle protezioni, fatte sino ad allora con un sistema semplice ma efficace: un prezzo fisso, definito ogni anno, per ogni prodotto e per tutti i produttori della UE. Il prezzo era tenuto alto, incentivava le produzioni in cui la UE era carente (quasi tutte) e, cambiando annualmente, almeno rispettava la cadenza ciclica delle produzioni per effettuare previsioni e aggiustamenti prima della nuova campagna produttiva. Dal 1992 in poi, con la nuova PAC, si è dato un contributo forfettario agli agricoltori indipendentemente dal prodotto e dalle quantità, regola che è ancora alla base delle attuali politiche. Per evitare che il sistema introdotto fosse ingovernabile, si posero una serie di ulteriori regole, più o meno complicate, per orientare i comportamenti dei produttori a cui si davano i compensi, misurati in base alla superficie coltivata in possesso.

Che il sistema non funzionasse come previsto, lo si capì subito. Orientato, da allora in poi, non nel rispetto dei cicli produttivi e delle condizioni climatiche ma di quello dei mercati, cioè della richiesta di prodotto e dei prezzi spuntati, il sistema permise la produzione dappertutto a prescindere dal tempo e dalle condizioni climatiche e, soprattutto, allargò il commercio avendo come regola il prezzo basso. Risultato: i limiti imposti nel settore lattiero in Italia non furono rispettati, l’obbligo di lasciare parte del suolo a riposo per evitare di perdere totalmente la fertilità funzionò male, alcuni regolamenti che erano stati considerati secondari, come quello per la creazione dei marchi locali (certificati e/o protetti) e dell’agricoltura biologica, si rivelarono più validi e profittevoli, corrispondendo ad un reale bisogno dei consumatori (ma non a quello delle grandi compagnie commerciali) e misero in crisi la concorrenza. Da allora in poi si è cercato mantenere in equilibrio il settore tra crisi di mercato, riduzione del numero di agricoltori – fatto di per sé negativo, ma accolto come un bene per il mercato -, epidemie e catastrofi (più o meno, una ogni tre anni) causate non dal destino ma dalla incuria (i terreni meno produttivi risultarono sostanzialmente abbandonati) e dalla sete di guadagno (emblematico il caso della “mucca pazza” di un trentennio fa).

Che fosse necessario orientare in senso ecologico il sistema produttivo e ridurre le risorse impiegate, le produzioni e l’inquinamento prodotto, era chiaro già venticinque anni fa: nelle discussioni avute sin da allora, vi era chi proponeva di avviarsi su questa strada attraverso regole rigide e chi riteneva che si dovesse evitare di dare all’agricoltore qualsiasi contributo, finanziando invece gli investimenti che necessari per migliorare l’assetto ecologico.

Cosa propone ora la UE per riformare la PAC? Dai siti ufficiali apprendiamo che “la riforma della PAC mira a: “fornire un sostegno più mirato alle aziende agricole di piccole dimensioni; rafforzare il contributo dell’agricoltura agli obiettivi ambientali e climatici dell’UE; consentire agli Stati membri una maggiore flessibilità nell’adattamento delle misure alle condizioni locali”.
Come si realizzerà la riforma? “Gli elementi principali della politica sono: 1) nuova architettura “verde” basata su condizioni ambientali che gli agricoltori devono rispettare e su misure volontarie supplementari; 2) pagamenti diretti e interventi di sviluppo rurale più mirati e soggetti a programmazione strategica, approccio basato sull’efficacia in base al quale gli Stati membri devono riferire annualmente in merito ai progressi compiuti.”

Infine, si includono nuovi elementi: “A) Un insieme comune di obiettivi fissati a livello dell’UE per la PAC nel suo insieme, in cui sono illustrati i traguardi per gli agricoltori, i cittadini e il clima che la politica vuole raggiungere. B) Un ampio strumentario di vari tipi di interventi convenuti a livello dell’UE, in cui sono definiti i possibili contributi degli Stati membri per conseguire gli obiettivi della PAC. C) Un insieme comune di indicatori concordato a livello dell’UE per garantire parità di condizioni nella valutazione dell’efficacia delle misure adottate. D) Ogni paese è libero di scegliere gli interventi specifici che ritiene più efficaci per conseguire i propri obiettivi specifici, sulla base di una chiara valutazione delle proprie esigenze attraverso un Piano Strategico Nazionale (PSN) per ogni Stato membro.”
Al di là della evidente vaghezza delle proposte e del fatto che non esiste un chiaro orizzonte in cui collocare la “svolta ecologica”, la contrapposizione con l’orientamento al mercato ha causato allarmi e malessere in quanti hanno sostenuto l’agricoltura produttivistica collegata al sistema industriale (sistema da cui ha ereditato i grandi difetti come inquinamento e consumi eccessivi) e hanno costruito le loro fortune su di essa dal 1992 in poi. Persino per la futura produzione energetica, al sistema di comunità energetica rinnovabile si preferisce proseguire nel legame con il sistema industriale attraverso la produzione di bio-metano che sostituirà le possibili perdite di quella agroalimentare (e certo non aiuterà a ridurre la quota di CO2 nell’atmosfera). Inoltre, se la relazione tra gli Stati della UE è quella che vediamo nelle altre grandi questioni come l’immigrazione e la guerra cioè, procedere in ordine sparso ed in concorrenza, come pensiamo che essi siano in grado di raggiungere una miracolosa unità d’intenti nel settore agricolo e produrre dei PSN che non siano tra loro contrapposti?

Se pensiamo poi al giudizio espresso dalle parti sociali, gli agricoltori, ridotti ad un numero irrisorio, sono sempre più allineati con i sistemi da cui dipende la loro vita assistita: quello industriale e quello finanziario. In Italia sono rappresentati dal sistema delle confederazioni dei produttori agricoli e dei produttori agroindustriali, a cui si contrappongono le associazioni ecologiste e dei produttori biologici e locali, rappresentati dalla coalizione “cambiamo l’agricoltura!”. In Europa, tre grandi associazioni ecologiste (Birdlife, EEB, WWF) hanno prodotto un documento in cui contrappongono, a quella produttivistica mascherata da una “transizione digitale nelle campagne”, una visione di agricoltura che supporti la transizione sostenibile della società: A brighter future for EU food and farming (qui).

Come ACU condividiamo questa lettura e notiamo, con soddisfazione, che si sia allargato al mondo ambientalista l’obiettivo di indirizzare l’agricoltura, scollegata dalle filiere, ad un’economia circolare e con l’attenzione verso la produzione, la vendita e il consumo di alimenti. L’ACU è nata come “ponte” tra agricoltura e consumo e vediamo in questa discussione sulla nuova PAC la possibilità di orientare l’ecologia del passato, volta al rispetto del paesaggio e dell’ambiente, verso il consumo sostenibile in agricoltura e il benessere alimentare dei cittadini.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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