L’emissione di leggi preventive, fatte quando addirittura
non esiste ancora il prodotto sul mercato, ci sembra essere
una soluzione poco scientifica e molto connessa agli interessi
di alcuni attori del mercato. I percorsi individuali di scelta
alimentare non possono essere oggetto di discussione,
ma quello che sottolineiamo, in assenza di certezze collettive,
è la necessità di consentire la libertà di scelta

La discussione sulla cosiddetta “carne sintetica” inizia a scendere nel concreto, anche se per la gente comune i riferimenti restano vaghi e diventa facile per le industrie del settore alimentare, per gli investitori della finanza e per i decisori politici la tentazione di sfruttare le dicerie, per avvalorare i punti di vista condivisi, favorevoli o contrari che siano. In Italia questo dibattito ha assunto un risvolto immediatamente operativo con una proposta di legge contraria a priori: segno di un grande (e poco produttivo) timore del futuro e di una forte debolezza di un sistema agroalimentare che si sente fragile dinanzi a qualsiasi variazione delle condizioni d’intervento. A che punto è questo confronto?

È in corso la discussione alla Camera del DDL S. 651 “Disposizioni in materia di divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati nonché di divieto della denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali ”, già approvato dal Senato, che entro il 15 novembre potrebbe decretare il divieto di produzione e commercializzazione in Italia di alimenti e mangimi prodotti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati, sanzionabile con multe da 10mila a 60mila euro.

Che il DDL sia di controversa e complessa approvazione e attuazione, lo si intuisce anche dalla definizione inserita nel titolo del provvedimento, in sostituzione della precedente semplicistica “alimenti e mangimi sintetici”, poiché la parola “sintetico” non si addice ad un cibo prodotto da cellule staminali prelevate da animale vivo, quale è la “carne sintetica”. Anche il termine con il quale il prodotto di origine animale viene correntemente definito nelle discussioni, cioè “carne sintetica”, è scorretto ed ha una valenza chiaramente spregiativa, un po’ come venivano definiti in modo spregiativo i formaggi di produzione industriale  nel corso degli anni Sessanta, quando si diceva che fossero “il formaggio fatto dai bottoni”, poiché nel settore industriale si sfruttavano le proprietà della caseina (parte del gruppo fosfo-proteico che si trova nel latte) che, dopo averla separata dalla parte liquida del latte, poteva essere modellata e utilizzata per bottoni e altri accessori.

Allora, cos’è la “carne sintetica”?

Innanzitutto, a nostro avviso, non è carne (il dizionario definisce “la carne: Parte muscolare del corpo dell’uomo e degli animali”) perché i tessuti prodotti che formano l’alimento vengono da cellule staminali, che sono la parte costitutiva degli organismi viventi e non rappresentano “la carne”. Viene moltiplicata coltivando queste cellule in un liquido in cui si nutrono e si moltiplicano, si differenziano e si specializzano creando grasso e tessuti muscolari, quindi un agglomerato simile alla carne, ma privo della funzionalità che questi tessuti hanno negli organismi viventi. La tecnica usata per produrla è nata inizialmente per la rigenerazione dei tessuti umani, “la stessa che si utilizza per ricostruire la pelle dei grandi ustionati” come ha spiegato in una recente intervista Luigi De Nardo, fondatore del corso di laurea magistrale in Food Engineering del Politecnico di Milano.

Non è sintetica, poiché in chimica sintesi vuol dire “produrre un composto attraverso una reazione, o una serie di reazioni, di sintesi, partendo cioè sia dagli elementi sia da composti più semplici”. Ma questo agglomerato, che forse potremmo mangiare, è il risultato di una moltiplicazione delle cellule in modo più o meno differenziato, qualcosa in più della sintesi chimica e, a mio avviso, anche della sintesi proteica per le implicazioni ed i processi successivi al primo passaggio riproduttivo.

Si tratta quindi di un prodotto alimentare innovativo, che prevede un prodotto finale che non sembra diverso dal prodotto tradizionale sia nell’aspetto, sia nel sapore, sia nei contenuti chimico-proteici-energetici che leggiamo nelle attuali etichette. Ma è diverso nel processo produttivo, completamente innovativo rispetto a quello che tradizionalmente significa “allevare animali per poi mangiarli”.  E quando dico innovativo, non intendo solo nelle tecniche, ma anche nelle finalità, nel modo di intendere la relazione con il mondo vivente, nelle implicazioni etiche che sviluppa. Se già l’alimentazione vegetariana aveva destrutturato il modo convenzionale idi intendere l’alimentazione e l’agricoltura, la “carne sintetica” causa una destrutturazione dell’immaginario simile a quella causata dal femminismo per il ruolo delle donne (che non sono “esseri inferiori”, come si è fatto credere per secoli) o del considerare gli esseri umani tutti uguali (il DNA è uno solo per tutte/i e le culture diverse non hanno origine da DNA diversi). Per questo motivo si è diffuso l’utilizzo del termine spregiativo “carne sintetica”, che stigmatizza e difende a priori, invece di approfondire la discussione e creare una terminologia che non sfrutti luoghi comuni e paure per impedire la ricerca trasparente per l’innovazione. La ricerca che ha ottenuto questo alimento da “coltura in provetta” può produrre anche risultati in grado di garantircene l’eventuale consumo. Per questo l’emissione di leggi preventive, fatte quando addirittura non esiste ancora il prodotto sul mercato, ci sembra essere una soluzione poco scientifica e molto connessa agli interessi di alcuni attori del mercato. D’altronde, per altri prodotti fortemente innovativi è stata sempre sottolineata l’importanza della trasparenza nelle attività di ricerca (spesso evitata per interessi economici, come nel caso degli OGM) e dell’informazione chiara per tutti nel processo produttivo e di consumo (fatto che, ad esempio, si vuole evitare per gli NBT, detti TEA in Italia, prodotti che provengono dalla ricombinazione genetica, che non si vuole sia messa in evidenza nelle etichette).

Un aspetto poco chiaro è anche il fatto che le forze politiche ed economiche che non vogliono trasparenza nei casi precedenti, la vogliono per i prodotti della zootecnica convenzionale, impedendo definizioni comuni a prodotti non zootecnici ma di stesso aspetto alimentare (come quelli provenienti da basi vegetali) e arrivando a chiedere con il DDL S. 651 la proibizione della “carne sintetica”, potenziale e pericolosa concorrente della produzione zootecnica convenzionale, oggi in forte crisi produttiva, economica e d’immagine. Ha ragione chi dice che una legge come quella proposta blocca la ricerca, anche se mette alla questione una foglia di fico, dicendo che si proibisce la produzione e la commercializzazione, ma non la ricerca. Qualcuno vuole investire danaro per una ricerca su prodotti proibiti?

Quali sono gli aspetti a favore/contro questo prodotto industriale/alimentare, che rappresenta il prototipo dei prodotti dell’industria in un mondo che utilizza nuove tecnologie? Innanzitutto, occorre dire che siamo ancora agli inizi della ricerca e della produzione, per cui molte certezze che abbiamo in questa fase (nel bene e nel male) sono probabilmente destinate a cambiare in futuro, come anche i costi economici ed energetici che sicuramente tenderanno a scendere rispetto agli attuali.  I dati sono ancora contradittori: a fronte di stime di consumo energetico e sistemi produttivi che ipotizzano costi insostenibili (e sono i  dati riportati nella presentazione della proposta legislativa proibizionista), i sostenitori di questa innovazione dicono che rispetto alla carne tradizionale quella sintetica consentirebbe di utilizzare dal 7% al 45% in meno di energia, il 99% in meno di suolo, l’82-96% in meno di acqua, emettendo tra il 78-96% in meno di emissioni a seconda del prodotto animale considerato. Non mi dilungo sugli aspetti economici e sociali, ma invito a considerare come improrogabile un piano di riconversione del settore zootecnico senza pensare ad improbabili escamotage proibizionisti. La zootecnia italiana ha difficoltà insuperabili con l’appello alla lotta comune contro il nemico “carne sintetica”.

Occorre aggiungere che contemporaneamente sono destinati ad aumentare per tutti i prodotti alimentari i costi e la tutela in fase produttiva e di consumo; anche se questa nuova produzione richiederà maggiore attenzione, le produzioni zootecniche saranno sottoposte a maggiori (e più costosi) sistemi di controllo e sicurezza. Se per il nuovo alimento la tipologia produttiva sarà simile a quella utilizzata nei laboratori per la ricostruzione dei tessuti ustionati, le condizioni di sicurezza per le “coltivazioni di carne” saranno essenziali e la possibilità di ottenere prodotti non omogenei sarà notevole, come avviene già oggi in molti casi nei centri di riproduzione delle piante o degli animali, utilizzando un unico seme per migliaia e migliaia di esemplari. Ma parlando della produzione zootecnica convenzionale, non ci troviamo certo difronte ad un sistema produttivo idilliaco: cosa dire delle condizioni degli animali, dell’eccessivo utilizzo di antibiotici, dell’inquinamento dei suoli e dell’aria con le grandi emissioni di CO2? L’attuale settore zootecnico rappresenta un sistema di filiera aggressivo contro la natura, in particolare contro alcune specie di animali, che comporterà sicuramente nel tempo problemi meno risolvibili con gli attuali sistemi produttivi, anche quelli considerati oggi più “dolci”.

Infine, vi è un problema etico, che certo non si risolverà per decreto. Perché uccidere gli animali per nutrirsi? Perché pensare che debbano esistere esseri costretti a vivere non liberi, finalizzati a essere mangiati? E poi, dobbiamo per forza mangiare la carne, sintetica o no? I percorsi individuali di scelta alimentare non possono essere oggetto di discussione, ma quello che sottolineiamo, in assenza di certezze collettive, è la necessità di scelta: permettere, per questo nuovo aggregato di proteine animali detto impropriamente “carne sintetica”, la produzione (dopo un iter come quello previsto dalle leggi comunitarie) e il commercio con etichette trasparenti riteniamo sia essenziale.

Non farlo preventivamente, è contro le attuali regole comunitarie e contro la logica della conoscenza: quando si consentiranno produzioni e vendita di tali prodotti (attualmente nella UE non vi è alcuna richiesta in tal senso), allora dovremmo permettere al consumatore di fare le scelte.

Personalmente sarei soddisfatto se sulle etichette di tali prodotti si scrivesse, come oggi avviene nei titoli di coda dei film, “nessun animale è stato maltrattato o ucciso per la produzione di questo alimento”.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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