Secondo Oxfam (movimento che lotta contro le diseguaglianze), in uno studio
pubblicato pochi giorni fa, nel 2019 l’1% (77 milioni di persone) più ricco del
pianeta inquina quanto due terzi dell’umanità, poiché è responsabile con il
suo stile di vita e i suoi consumi, del 16% delle emissioni globali di CO2.
Se vogliamo dirla tutta, il 10% della popolazione più ricca del pianeta, dato che
comprende la massa delle popolazioni degli stati ad “economia avanzata”,
è responsabile del 50% delle emissioni globali
Come d’abitudine, ad una settimana dalla conferenza sul clima COP28 (30 novembre/12 dicembre 2023) si moltiplicano sui media le dichiarazioni ed i commenti per un evento che si mostra in una luce diversa dal passato. Nelle passate edizioni di questa grande kermesse al centro dell’attenzione erano i governi e i grandi Paesi industrializzati. Al cuore del dibattito vi era la discussione sulle cause del cambiamento climatico: è da considerare un fatto “naturale”, conseguenza dell’evoluzione geofisica del pianeta? O è la conseguenza dell’agire umano di questi ultimi secoli? Tra le due posizioni estreme una serie di ipotesi che urtavano contro il muro di gomma della politica, le cui motivazioni pratiche erano quelle dei gruppi d’interesse e dei governi, fisse su valutazioni economiche e calcoli elettorali.
Forse dipende dall’incertezza del futuro per i governi di molti grandi Paesi (USA e UE in testa), giunti nel prossimo anno alla scadenza elettorale o dalla presenza di due guerre in Ucraina e Palestina, strategicamente importanti, che rendono incerte le prospettive; ma questa edizione si muove su di un terreno diverso, buttandosi alle spalle le incerte discussioni del passato e scendendo finalmente sul concreto. Si parlerà non del “se”, prendendo atto di una situazione climatica peggiorata e non eludibile, e si dovrà parlare concretamente di soluzioni, anche se quelle che prevedibilmente saranno prese, non saranno certo avviate nel senso che vorremmo fossero.
Perché dico questo? Perché non si prevedono soluzioni miracolose, anche ora, dopo il 17 novembre, quando è stata superata – per fortuna solo temporaneamente – la pericolosa soglia di non ritorno verso il riscaldamento globale, fissata a +2° della temperatura media del globo esistente prima dell’epoca industriale (15°).
E perché, contrariamente alla logica, si fatica molto ad ammettere di avere sbagliato direzione e così si cerca di adattare il necessario cambiamento ai propri interessi ed al modo di agire del passato. Si chiama greenwashing questa attività, spesso subdola ma alcune volte involontaria, attraverso cui le imprese cercano di dare una lettura diversa delle attività in corso, quando si rendono conto di essere tra la causa delle emissioni di CO2 e di “prodotti” ad effetto serra e non vedono possibilità di mutare condotta, pena la scomparsa.
Esse trovano appiglio nel pensiero e nelle valutazioni di molti centri di ricerca e, soprattutto, delle grandi istituzioni che lanciano messaggi precisi e analisi impeccabili, ma poi offrono soluzioni deboli, nel timore di irritare i governi e le compagnie che muovono il sistema economico.
Per contro, altri enti di ricerca cercano di essere molto espliciti, rischiando di essere bollati come “eversivi” da quanti temono il montare di un movimento simile a quello che nel ‘68 cambiò la cultura ed il modo di vedere la realtà sul pianeta, anche se non riuscì a cambiare il governo della società e si concluse – come spesso accade a eventi rivoluzionari – con eccessi, bloccati da esperienze autoritarie. Ma resta la necessità di un cambiamento che veda protagoniste le persone che subiscono inquinamento, guerre e diseguaglianze poco giustificabili, a partire da quelle di genere.
E ritornano i vecchi temi che uniscono la cultura e il modo di vivere all’economia ed al sociale: vogliamo “il pane e le rose”, come diceva all’inizio del XX secolo Rose Schneiderman, leader femminista, in un discorso a Cleveland (USA), discorso che ispirò una poesia di James Oppenheim del 1911 messa poi in musica da Martha Coleman e Caroline Kohlsaatnel.
Sembra un discorso completamente diverso da quello del cambiamento climatico, ma basta leggere un paio di articoli per capire la stretta connessione tra i temi sociali e quelli ecologici.
In un articolo sul Corriere della sera Maurizio Martina, vicedirettore generale della FAO, denuncia gli effetti attuali del cambiamento climatico con una perdita media per l’agricoltura del 5% del PIL globale e sino al 15% per i Paesi più poveri e più dipendenti dalle produzioni agricole per la sopravvivenza economica. Sottolinea l’intensità e la ricorrenza degli eventi catastrofici (ne sappiamo anche noi in Italia qualcosa) e la necessità di nuove strategie per “incrementare gli investimenti nella tenuta dei sistemi rurali, sviluppare approcci multisettoriali e multirischio per la riduzione del rischio anche attraverso nuovi strumenti assicurativi”. Ma poi non va oltre un invito alla responsabilità.
Dubito che gli strumenti assicurativi possano produrre effetti che vadano al di là dell’aumento delle rendite delle società del settore e dell’aumento delle disparità tra chi può assicurarsi e chi non può farlo. Ma all’analisi mancano alcune parti fondamentali: nel mondo rurale del pianeta è soprattutto la donna a lavorare e le conseguenze delle catastrofi hanno ripercussioni sulla tenuta sociale complessiva (lo vediamo dal numero sempre maggiore di donne e bambini tra i migranti). E poi non vi è una situazione così chiaramente separata tra Paesi poveri e Paesi ricchi.
Su questi aspetti il lavoro di analisi svolto da Oxfam (movimento che lotta contro le diseguaglianze) e pubblicato pochi giorni fa, offre un’analisi più approfondita e propone soluzioni. Molto esplicitamente dice che, dati alla mano, nel 2019 l’1% (77 milioni di persone) più ricco del pianeta inquina quanto due terzi dell’umanità, poiché è responsabile con il suo stile di vita e i suoi consumi, del 16% delle emissioni globali di CO2. Se vogliamo dirla tutta, il 10% della popolazione più ricca del pianeta, dato che comprende la massa delle popolazioni degli stati ad “economia avanzata”, è responsabile del 50% delle emissioni globali. Scendendo in Italia, il confronto tra le fasce di reddito vedeva il 10% della popolazione inquinare il 36% in più rispetto alla metà degli Italiani che non raggiungono redditi “sufficienti” ad inquinare.
Poiché l’inquinamento si distribuisce in modo uniforme, la responsabilità dei pochi inquinanti rispetto all’evoluzione del clima è evidente. Ricordo che l’inquinamento ed il cambiamento climatico sono responsabili di causare in tal modo la morte di centinaia di migliaia di persone (la stima parla di 1,3 milioni di persone come potenziali vittime degli effetti del riscaldamento globale entro il 2030).
Non a caso da Oxfam è stata lanciata la campagna #LaGrandeRicchezza, sostenuta dal Fatto Quotidiano e Radio Popolare, che propone un’imposta progressiva sui grandi patrimoni e – in sostanza – a carico del vertice dei nostri Stati, guidati dai cittadini più ricchi e dalle grandi imprese.
Certo, con il tempo, ho imparato a vedere in modo più complesso il mondo e quella cosa che chiamavo “lotta di classe” si è arricchita di altri problemi: il sessismo, il razzismo, lo “specismo” (il sentirsi diversi, cioè superiori agli altri animali), la tutela dell’ambiente, la necessità di un consumo giusto e sostenibile.
Ma in fondo, se tutto questo non è lotta di classe, che cosa è?
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti