Oltre trent’anni di dibattito internazionale sul tema
delle perdite e dei danni legati al clima (Loss & Damage, L&D),
e ancora non si è arrivati a una definizione condivisa.
Delegati, negoziatori, scienziati ed esperti, da Paesi
sviluppati e Paesi in via di sviluppo, hanno spesso dato
interpretazioni diverse e persino contrastanti di L&D, un
tema da sempre caratterizzato da questioni controverse
come richieste di giustizia, di attribuzione delle responsabilità
e azioni di risarcimento e compensazione.
Il principio “chi inquina paga” è in vigore in Europa da alcuni decenni e le legislazioni nazionali si sono tutte adeguate con specifiche norme che lo applicano. Anche le Conferenza delle Parti (“Conference of the Parties -COP“) delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici sembrano privilegiare questa filosofia.
Nella Cop28, in corso in questi giorni a Dubai, stiamo registrando ripetuti annunci della disponibilità di molti paesi a contribuire finanziariamente al Fondo Loss & Damage, il fondo per il risarcire le perdite e i danni subìti dai paesi che sono meno responsabili del riscaldamento globale ma ne subiscono i suoi danni peggiori, istituito già nella Cop27 del 2022 in Egitto.
Bene anzi, molto bene, verrebbe da dire. Consideriamo che per anni i meccanismi di riparazione sono stati bloccati da uno stucchevole dibattito sulla valutazione di quanto e fino a che punto esso corrispondesse ad un’assunzione di responsabilità da parte degli Stati, perché notoriamente il climate change non ha né padre né madre. E se al più importante evento mondiale sul clima in cui il numero dei lobbisti del oil and gas supera quello dei delegati ed è sciaguratamente guidato da un presidente petroliere e negazionista, le obiezioni si superano (o si finge di superarle) e si raggiunge questo risultato, dovremmo tutti essere soddisfatti. Ebbene, io lo sono moderatamente. Provo, sinteticamente a spiegarne le ragioni che, per il momento, prescindono dalla considerazione dell’inadeguatezza quantitativa dei contributi promessi (e chissà quando elargiti effettivamente) rispetto alla vera entità delle “Perdite & Danni” subite dai paesi meno colpevoli e più vulnerabili (si veda la corrispondenza nella rubrica GREEN NEWS)
Quello che voglio revocare in dubbio è la continua “monetizzazione” dell’Ambiente e conseguentemente della Salute. Perché l’esperienza ci insegna che, se la dichiarazione della volontà di risarcire i danni (che, peraltro, non avrebbe necessità di essere affermata esplicitamente) non va di pari passo con quella di adoperarsi concretamente per non provocarne di altri, l’attuale sistema si trasforma in una “licenza per inquinare”: a patto che tu possa pagare (vale a dire, se te lo puoi permettere) sei autorizzato a inquinare. E così interpreto io le dichiarazioni di quei paesi che alla Cop28 hanno affermato, gran fragor di fanfare e grancasse dei media amici, di contribuire al fondo L&D ma nel contempo non hanno affermato affatto di voler contribuire, fattivamente, alla riduzione (“graduale”, sì lo concedo pure) dell’utilizzo delle fonti fossili: in primis petrolio, gas e carbone.
Anzi, continuano a promuoverne e ad incentivarne l’utilizzo, in continua adorazione di quel nume tutelare che si chiama sviluppo economico sempre, ad ogni costo. Si distrugge, si paga e si continua a distruggere.
L’azione per contrastare i mutamenti climatici si sostiene su due gambe: l’adattamento e la mitigazione. I due termini descrivono situazioni diverse.
«Adattamento» significa anticipare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici e adottare misure adeguate a prevenire o ridurre al minimo i danni che possono causare oppure sfruttare le opportunità che possono presentarsi. Esempi di misure di adattamento sono modifiche infrastrutturali su larga scala, come la costruzione di difese per proteggere dall’innalzamento del livello del mare, e cambiamenti comportamentali, come la riduzione degli sprechi alimentari da parte dei singoli. In sostanza, l’adattamento può essere inteso come il processo di adeguamento agli effetti attuali e futuri dei cambiamenti climatici.
«Mitigazione» significa rendere meno gravi gli impatti dei cambiamenti climatici prevenendo o diminuendo l’emissione di gas a effetto serra nell’atmosfera. La mitigazione si ottiene riducendo le fonti di questi gas oppure potenziandone lo stoccaggio (ad esempio attraverso l’aumento delle dimensioni delle foreste). In breve, la mitigazione è un intervento umano che riduce le fonti delle emissioni di gas a effetto serra e/o rafforza i pozzi di assorbimento.
Come dicevo, le politiche per la “mitigazione” attraverso la riduzione delle fonti fossili in questa Cop sembrano scomparse se non addirittura rinnegate.
Al contrario, si dedica più attenzione alle politiche per l’ “adattamento”, come con il fondo L&D, ma non per “prevenire”, bensì per “riparare”. E la soluzione per tutti gli interventi a posteriori è affidata alle virtù salvifiche di un sistema di mercato. È un sistema che conosciamo bene a livello globale.
È il sistema, ad esempio, del mercato delle quote di carbonio (carbon credits), introdotto dal protocollo di Kyoto nella Cop3 del 1997, ribattezzato dall’Europa ETS (Emissions Trading System). È quel sistema, detto del Cap and Trade, che consente alle attività industriali di emettere gas climalteranti entro un tetto o limite superato il quale si possono acquistare o vendere quote, ciascuna rappresentativa di una tonnellata di CO2, in base alle proprie esigenze. Le quote rappresentano la valuta centrale del sistema di scambi e dovrebbero servire per “compensare” le emissioni rilasciate oltre il “consentito”, con altrettante iniziative (la gran parte inutili, secondo le recenti analisi) in favore dell’Ambiente. In un precedente articolo su questo sito (qui) scrissi che è come peccare ricevendo la remissione del peccato commesso con l’apostolica assoluzione per poi ritornare a peccare e ad essere di nuovo assolti, per poi di nuovo peccare e così all’infinito. E le penitenze per questi “peccatori globali” sono i soldi, i quattrini, i dollari o gli euro, secondo le evenienze. Solo che questa volta il ”peccato” va ben oltre la dimensione individuale e personalissima dell’autore ma produce le proprie nefaste conseguenze sulla collettività globale, su quella che il sempre più ignorato Papa Francesco chiama “la casa comune” o “il creato”.
Il sistema è quindi sempre -dicevo- un sistema di mercato: un mercato globale del carbonio dal quale il meccanismo attuale del fondo L&D non sembra differire molto, almeno nella sua filosofia.
Eppure proprio a Kyoto, nel 1997, oltre al commercio internazionale delle emissioni, furono stabiliti altri due meccanismi che dovevano bilanciarlo: il meccanismo di sviluppo pulito (Clean Development Mechanism – CDM) e l’implementazione congiunta (Joint Implementation – JI). Si trattava sempre di due schemi di compensazione delle emissioni di carbonio gestito dalle Nazioni Unite ma essi prevedevano di consentire ai paesi di finanziare progetti di riduzione delle emissioni di gas serra in altri paesi in via di sviluppo e di rivendicare le emissioni risparmiate come parte dei propri sforzi per raggiungere gli obiettivi internazionali sulle emissioni. L’obiettivo di questi meccanismi di flessibilità era quello di abbattere le emissioni, senza riferimento a limiti o soglie consentite e, allo stesso tempo, di trasferire conoscenze e tecnologia (quindi non solo fondi) ai Paesi in via di sviluppo, per la prevenzione degli eventi climatici, la loro mitigazione e l’adattamento.
Eravamo alla Cop3, oggi siamo alla Cop28, ventisei anni dopo non registriamo alcun segnale teso alla riduzione delle emissioni, all’abbandono delle fonti fossili, e men che meno alla cooperazione e al trasferimento di tecnologie e conoscenze in favore dei paesi più svantaggiati. Le coscienze dei leader si lavano aprendo i cordoni delle borse, mentre dilagano nella stessa Cop tesi negazioniste che contestano invece la fondatezza di quelle “conoscenze” che solo qualche decennio fa si volevano trasferire ad altri e condividere tra gli stati.
Tra allora ed oggi ci sono però i 2 milioni di morti per eventi climatici estremi, la stragrande maggioranza di questi concentrata nei Paesi in via di sviluppo (dati della World Meteorological Organization). Secondo uno studio di The Lancet Planetary Health, quasi il 9,43% dei decessi mondiali può essere attribuito ad anomalie termiche, fredde o calde. Questo significa che circa 74 decessi ogni 100.000 avvengono a causa dei cambiamenti climatici. Gli ultimi 10 anni più caldi nel record storico sono tutti avvenuti dal 2010 in poi. E il 2023 che sta per finire sarà l’anno più caldo nella storia del mondo.
Ma tranquilli, con i soldi tutto passerà.
Giuseppe d’Ippolito