Per produrre carne in un allevamento tradizionale si
consuma molta acqua?
“Per fare un chilo di carne ci vuole tanta acqua? E sì,
l’animale beve e poi come tutti gli esseri umani urina
anche e quindi la reimmette in natura, in maniera rapidissima
riesci ad avere una depurazione naturale”
(cit. Francesco Lollobrigida, ministro)
La Cop28 è una fake news? Il dubbio mi è sorto ascoltando ciò che ha detto il presidente di Cop28, Sultan Ahmed Al Jaber, a sua volta responsabile della compagnia petrolifera statale degli Emirati Arabi Uniti: “Non ci sono evidenze scientifiche che sia necessario abbandonare le fonti fossili per centrare l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura media globale entro gli 1,5 gradi”. Metterlo a presiedere la conferenza mondiale sul clima mi è sembrata la realizzazione della metafora “mettere la volpe a guardia del pollaio”.
Non è il solo paradosso poiché, quando i responsabili delle più disparate amministrazioni nel mondo si apprestano a giustificare le loro azioni o spiegare il loro pensiero, frasi di tale portata vengono pronunciate nella più assoluta serenità.
Un piccolo esempio ce lo offre il ministro italiano Lollobrigida. “Domanda: Per produrre carne in un allevamento tradizionale si consuma molta acqua? Risposta: “Per fare un chilo di carne ci vuole tanta acqua? E sì, l’animale beve e poi come tutti gli esseri umani urina anche e quindi la reimmette in natura, in maniera rapidissima riesci ad avere una depurazione naturale” (video). Tale “profonda” riflessione rappresenta la traduzione, rozza ma popolare, dell’aforisma Panta Rei (tutto scorre) attribuito ad Eraclito, che mia madre utilizzava per convincermi sbrigativamente a farla accanto alla 600 senza tante storie, quando ero piccolo (ma abbastanza grande per vergognarmi) e andavamo in vacanza nel sud Italia, in pieno boom economico, con poche autostrade, pochi distributori e poche (e poco frequentabili) toilette.
Per risollevare il pensiero dalle umane necessità, pur continuando a collegare in un unico quadro il cambiamento climatico, l’agricoltura, il ciclo dell’acqua e le trasformazioni tecnologiche, torniamo a considerare il futuro e il PNRR, Piano che in Italia dovrebbe portare un po’ di ossigeno economico e realizzare una parte dei nostri sogni. Comunque vada, le prossime due generazioni saranno condizionate da quanto verrà finanziato da questo Piano.
Ora, a mio parere, abbiamo poco da gioire per un’ulteriore tranche di pagamenti votata da parte della UE, che porta la disponibilità finanziaria per le realizzazioni a 101,9 miliardi, il 53% dei 191,9 miliardi di euro totali del Piano. Anche questa è una fake news, poiché la vera notizia sarebbe non il finanziamento di una parte del Piano che, se ben fatto, sarebbe un atto dovuto, ma la riduzione del totale degli stanziamenti dai 248 miliardi iniziali, agli attuali 191,5 miliardi di euro. Quindi, una parte dei nostri sogni resterà nel cassetto, ma quale parte?
A rivelarcelo è Stefano Amoroso sull’ Avanti, testata dal glorioso passato, il quale, senza fronzoli, elenca i tagli delle risorse destinate all’inclusione sociale, all’ambiente, ai giovani, ai piccoli Comuni, soprattutto al sud. Le voci specifiche dei tagli sono ben più eloquenti dell’elenco: meno fondi per la voce “resilienza, valorizzazione del territorio ed efficienza energetica dei Comuni”, per “progetti di rigenerazione urbana, volti a ridurre le situazioni di emarginazione e degrado sociale”, per “gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico”, per “l’utilizzo dell’idrogeno in settori hard-to-abate” (quelli in cui le emissioni di CO2 sono “dure da abbattere”). Viene da chiedersi cosa sognano i governanti che progettano un piano tagliando queste voci. Il realismo a cui essi si richiamano operando tali tagli, ricorda non la sana presa di coscienza ma il panico di quanti si rendono conto che hanno vissuto sino adora in un mondo irreale e vorrebbero restare al suo interno. Vorrebbero non svegliarsi mai dall’illusione di essere nel migliore Paese del mondo (ma in quale classifica?), dove si mangia meglio (ma quanti mangiano meglio?), dove ci si veste meglio (ma quanti possono spendere per “essere alla moda”?), dove abbiamo idee bellissime (peccato che per realizzarle bisogna andare all’estero).
In realtà chi ci governa è ancorato al passato, al sogno del boom economico, incapace a immaginare che si possa vivere per “realizzare” qualcosa che servirà ai futuri bisogni e non a quelli attuali; invece, si opera per “apparire”, mettendo i lustrini su quello che oggi siamo. Il ponte sullo stretto di Messina è l’esempio di tale mentalità: fare qualcosa per dimostrare che siamo in grado di farla, a prescindere dalle conseguenze e dagli effetti e di altri esempi ce ne sarebbero molti. La sola idea di qualcosa ad effetto eccita i fautori della proposta, non importa se spesso nel farla si scenda nel ridicolo, come per il divieto di produzione di “carne coltivata” quando ancora non esiste la richiesta per produrla. Si tratta di un governo che, mentre propone di vietare qualcosa che non c’è, non propone niente per una seria bonifica del Paese dall’amianto, per ridurre drasticamente l’inquinamento delle aree urbane e delle aree industriali, per limitare ed eliminare coltivazioni e allevamenti intensivi, per impedire gli abusi su animali e l’uccisione delle donne.
Leggendo le imprese di questi governanti, incapaci di cogliere la tragicità del loro agire, ritorno con la mente al comportamento negli anni Sessanta di alcune famiglie di mia conoscenza, quando la scalata sociale modificava le priorità nella scala dei valori. C’erano famiglie di “aspiranti al benessere” che risparmiavano per tutto l’anno sugli alimenti, sul riscaldamento, sulla luce (cose che per i miei genitori erano le conquiste del dopoguerra da conservare) pur di avere i soldi necessari a comperare un vestito adeguato e il biglietto per partecipare al “veglionissimo” cittadino di fine anno, per fare foto da mostrare e poter entrare in contatto con il mondo dorato della élite cittadina.
La realtà è che nel nostro Paese il senso di perdita rispetto al passato riguarda condizioni in parte materiali ed in parte psicologiche, come ben rivela il quadro disegnato dall’ultimo rapporto CENSIS che ci definisce come “il Paese dalle mille scie, ma nessuno sciame”. Sciame che invece esiste altrove poiché, se la discesa riguarda pezzi più o meno consistenti delle società di tutti i Paesi industrializzati, le reazioni al loro interno sono ben più consistenti e stimolanti di quelle nostrane. Non ammetterlo ed operare per conservare quello che abbiamo potrà causare solo disastri. Purtroppo, la difesa dell’esistente è una sindrome diffusa nel mondo occidentale e nei suoi ricchi fornitori di energia, come gli Emirati; incapace di andare più in là di dove si è arrivati, questo mondo cerca di guadagnare tempo impedendo al resto del pianeta di seguire altre strade.
Ci sono alcune semplici considerazioni che andrebbero fatte per avviare il rinnovamento programmatico: nessun consumo di energia per un vivente è esente dalla produzione di CO2; l’energia non dovrebbe essere concentrata, ma prodotta per quel che serve e consumata là dove si produce; i tempi per la degradazione di qualunque prodotto non sono istantanei; bisognerebbe considerare i generi umani e le specie viventi come diversi e accettati, ma non in scala di valore. Non avere questo nuovo orizzonte ci crea problemi e non ci aiuta a vivere il cambiamento climatico già in atto a cui dovremo adattarci.
L’attuale PNRR italiano non solo non rispetta tali criteri, ma non aspira a rispettarli e disegna un futuro che è una fake news.
Le prossime generazioni non ci ringrazieranno.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti