Vedendo le cronache di questi giorni sulla rivolta degli agricoltori d’Europa,
la prima cosa che mi è venuta in mente è stata il “Canto dei Sanfedisti”,
una canzone napoletana della fine del ‘700, riportata in auge dalla NCCP
(Nuova Compagnia di Canto Popolare) negli anni ’70 del secolo scorso;
il testo rende evidente il clima di malcontento che si sviluppò nelle
campagne del sud con la crisi rivoluzionaria e con la nascita della
Repubblica Partenopea, sostenuta dalle migliori menti del Settecento
illuminista napoletano. L’esperienza finì tragicamente alcuni mesi dopo,
con la morte o l’esilio dei rivoluzionari e con il regno borbonico che,
privatosi della generazione del cambiamento, regredì nelle strutture
e nell’economia, resistendo al cambiamento sino alla conquista
garibaldina del 1860/61.
Il malcontento di un tempo non è diverso da quello attuale: allora rivolto contro i francesi giunti a Napoli con la “loro” democrazia, oggi contro l’Unione Europea e le sue regole comuni. Il paradosso storico è che, a due secoli di distanza, gli agricoltori con la loro rivolta intendono difendere quei principi democratici contro cui lottavano in nome del re Borbone. Sotto il paradosso c’è ora, come allora, il malessere di chi sente arrivare decisioni sulla propria pelle mentre vede sfumare il reddito vanamente inseguito con trasformazioni e innovazioni fatte indebitandosi. Gli agricoltori, in particolare i contadini e i braccianti (che purtroppo non hanno voce in capitolo), sono considerati come “merce a disposizione”, si sentono esclusi e non condividono decisioni che cadono sulla loro testa. Più in generale, chi lavora in agricoltura si vede ai margini, oggetto e non soggetto di un processo di cambiamento della società (nel Settecento si passò da una società feudale alla società industriale, oggi siamo alla fine di questo tipo di società e ne dovremo creare un’altra), e pertanto rivendica diritti e appartenenza a pieno titolo. Sarebbe auspicabile innanzitutto che i contadini creassero una alleanza di settore che includa i braccianti, togliendoli dal mercato nero che invece alimenta la concorrenza delle produzioni a basso prezzo.
La rivolta non mi ha meravigliato, né rappresenta una fiammata, preceduta negli scorsi anni da movimenti come quello dei “forconi” in Italia o dai “gilet gialli” in Francia e da innumerevoli scioperi e rivolte dei braccianti nella Unione Europea (UE), derubricate spesso come questioni di ordine pubblico o, peggio, come questioni di mancate integrazione degli stranieri nella società. Mi meraviglia la sottovalutazione data a questi episodi dalle forze che dovrebbero guidare il cambiamento, come gli ambientalisti, i produttori biologici e gli stessi sindacati agricoli; forse l’errore di sottovalutazione commesso dai giacobini napoletani di un tempo non ci ha insegnato molto, se pensiamo che i mutamenti possano avvenire ed essere accettati senza il coinvolgimento delle persone interessate. Dovremmo anche riflettere sul perché il malessere attraversi trasversalmente il settore agricolo, includendo tutte le tipologie di agricoltori, dai piccoli contadini che spesso non ricevono alcun sussidio e che in Italia, complessivamente ricevono solo il 6% degli aiuti previsti, ai grandi produttori, che in Italia rappresentano il 10% del totale ma raccolgono il 50% dei contributi e sono i privilegiati del sistema.
Oggi la Politica Agricola Comune (PAC) della UE favorisce la concentrazione sia dei terreni, sia delle produzioni in poche mani, danneggiando i piccoli e avvantaggiando i grandi produttori agricoli e agroalimentari, i quali non vogliono ridurre i loro privilegi. Dinanzi alla irreversibile crisi climatica, il Green Deal rappresenta il tentativo fatto dalla UE di salvare capra e cavoli: ma i grandi privilegiati dal sistema instaurato con la riforma della PAC degli anni Novanta non vogliono nemmeno questo e cercano di strumentalizzare il malessere dei piccoli produttori a loro vantaggio. Servirebbe rimettere in scena un vecchio spettacolo di Dario Fo “Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone?” per spiegare come sia impossibile far guidare una lotta contro un sistema di privilegi da qualcuno (fosse un singolo o un’organizzazione) che vive di questi privilegi. Non esiste un’agricoltura nazionale contro un’agricoltura della UE, non esiste un settore agricolo contro gli altri settori, non esiste un’agricoltura contro regole “troppo radicali”, non esistono agricoltori contro ambientalisti: chi dice queste parole maschera i propri interessi cercando di farli passare come interessi comuni. Esistono invece in ogni settore, in ogni realtà (locale, nazionale o comunitaria) interessi diversi e contrapposti e il solo modo per eliminare i privilegi dei pochi è cercare un accordo con i consumatori sul prezzo giusto del prodotto: un prezzo che premi i produttori e non solo i distributori, la qualità e il sapore delle produzioni e non la dimensione e le quantità, che privilegi le produzioni locali a quelle identiche che vengono da lontano, che commercializzi prodotti alimentari controllati da terzi, in grado di prevenire le malattie e non di causarle, perché pieni di additivi, coloranti, grassi e zuccheri, concimi e antiparassitari. Non serve aumentare le quantità prodotte. Perché in un Paese (come l’Italia o come la UE) che riduce il numero dei suoi abitanti, che diventa sempre più “vecchio” (gli anziani mangiano meno e chiedono migliore qualità) si devono aumentare le produzioni, come chiedono ministri e associazioni di settore? Qualcuno crede che aumentando la produzione il prezzo finale aumenterà e compenserà i costi necessari all’aumento?
Le regole della PAC andrebbero cambiate: esse attualmente perseguono le regole del mercato finanziario applicandole in una realtà ciclica come quella delle produzioni biologiche, rendendola lineare con il sistema delle filiere. Il sistema agricolo, attraverso la ciclicità, è grado di catturare ed accumulare gratis l’energia del sole e trasformarla in alimento e la ciclicità andrebbe tutelata. Le regole del mercato finanziario hanno ridotto la concorrenza invece di aumentarla: gli agricoltori sono sempre di meno, le superfici coltivabili si sono ridotte a vantaggio delle speculazioni edilizie e della cementificazione, il sistema della concorrenza ha ridotto il numero delle imprese agroalimentari e i grandi gruppi controllano le politiche dei prezzi. Gli organismi viventi (compresi i lavoratori della terra) sono considerati solo una “materia prima” come il petrolio, da mantenere a basso pezzo per permettere al sistema delle filiere industriali di continuare a fare profitti. Senza queste spiegazioni risultano incomprensibili le costanti crisi produttive dei diversi comparti agricoli nonostante il continuo sostegno dato al settore. Il sistema del commercio mondiale ha cercato di fare con l’agricoltura una impossibile quadratura del cerchio: serve spezzare il quadrato degli accordi commerciali internazionali per ripristinare il cerchio naturale del ciclo delle produzioni locali a basso impatto ambientale.
Nel giovane movimento che punta a cambiare le regole della PAC i grandi assenti sono i consumatori, che invece dovrebbero essere i principali alleati degli agricoltori, i quali rappresentano una minoranza eterogenea, intrappolata dagli accordi commerciali di settore. Se gli agricoltori non vogliono fare una fine simile a quella della dei tassisti, dovrebbero trovare nei consumatori i loro principali alleati. Per cambiare le regole, le alleanze si fanno con chi sta più in basso nella scala dei privilegi e, in fondo, gli unici a non essere sovvenzionati nel sistema agroalimentare sono proprio i consumatori. Analizzando la diceria comune sul sovvenzionamento degli agricoltori, si deve rilevare che gli altri settori produttivi sono finanziati in modo molto più consistente dagli Stati nazionali (che hanno complessivamente un bilancio molto più grande di quello comunitario). Se i soldi buttati nel mantenimento di aziende come l’Alitalia o l’Italsider di Taranto fossero stati utilizzati per garantire meglio la circolazione dei prodotti alimentari a livello comunitario o le produzioni locali dell’area tarantina, oggi non ci troveremmo con il dilemma di dover salvare un settore di trasporto poco efficiente o disinquinare un’area territoriale in alternativa al reddito delle famiglie dei lavoratori di aziende inquinanti.
La protezione del settore agricolo, nata con la PAC, finì con la riforma della PAC dei primi anni Novanta che tolse la protezione al prezzo unitario del prodotto agricolo per dare un contributo forfettario per ettaro ai produttori. Questo finanziamento annuale in base alla proprietà posseduta, con pochi vincoli e scarsi controlli sociali, rientra in una partita di giro controllata dalle banche e dalle filiere produttive, che permette ai grandi proprietari di vivere di rendita ed ai piccoli di giungere stentatamente a chiudere i conti a fine anno. Se vogliamo ricordarci della storia, i giacobini lottarono contro i privilegi dell’aristocrazia terriera mentre la PAC, riformata per sottoscrivere gli accordi internazionali del GATT, sembra aver voluto ripristinare tali privilegi.
In questo è vero che “la PAC ha tradito sé stessa”, perché era nata per favorire l’autoapprovvigionamento comunitario e permettere di produrre di più nei territori più vocati per le diverse produzioni. Per farlo aveva fissato il prezzo base comunitario diverso da quello del mercato mondiale, spesso molto superiore; questo sistema di sovvenzione ha permesso di proteggere l’agricoltura a, al tempo stesso si è trascinato alcuni difetti come quello di favorire le eccedenze produttive e di sfavorire la qualità dei prodotti, cose che nel tempo hanno fatto gridare allo scandalo. Ma lo scandalo è stato non includere nelle politiche di un tempo sia la qualità dei prodotti legata alle esigenze di nutrizione della popolazione comunitaria, sia la tutela dei territori che sono stati inquinati da quantità di concimi chimici e antiparassitari, utilizzati con l’obiettivo di aumentare le rese, che hanno degradato il suolo e l’ambiente. Credo che ripristinare un concetto di prezzo giusto legato con un accordo tra produttori e consumatori, sia un obiettivo necessario. Però non lo vedo evidente nelle richieste di quanti oggi lottano per la difesa del mondo contadino.
Il paradosso della lotta attuale, dalle motivazioni giuste ma dagli obiettivi poco chiari, è nella sua stessa immagine: la marcia dei trattori. Il trattore diesel, il mezzo più inquinante, distruttore di suolo e principale strumento di indebitamento contadino, potrebbe mai essere il simbolo di una lotta di rinascita? È come se per lottare contro l’inquinamento delle città tutti marciassero con auto diesel e benzina.
Servono nuove immagini e nuove idee per rappresentare il nuovo che solo un’alleanza con i consumatori potrebbe produrre.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti