Un sondaggio di Demopolis per la trasmissione Ottoemezzo del 13 febbraio,
registra che il 70% dei cittadini italiani è d’accordo con la protesta dei trattori
e addirittura il 90% condivide la preoccupazione per l’importazione di prodotti
da paesi con standard meno rigidi di quelli nazionali, mentre solo un’esigua
minoranza è d’accordo con la decisione europea di rinviare la decisione sulla
riduzione dei pesticidi in agricoltura. Così come una grande maggioranza si
esprime in favore del Green Deal seppure con una preponderante richiesta di
revisione dei tempi e delle modalità d’applicazione. Infine, il 75% degli italiani
intervistati da Demopolis, ritiene che i guadagni degli agricoltori non debbano
essere inferiore ai costi della produzione. Ma come è cambiata l’Italia nel
nuovo millennio?
Non hanno potuto bloccare i loro trattori davanti ad un’opera d’arte o depositare cavoli e lattughe davanti a un quadro di Van Gogh, ma la protesta degli agricoltori non è stata poi dissimile da quella degli attivisti di Ultima Generazione che utilizzano le minestre di verdure e i purè per lanciare il loro allarme per il clima. Entrambe le proteste, sia la rivolta dei trattori che quella degli attivisti di Ultima Generazione sollecitano una crescente attenzione verso i mutamenti climatici. Sebbene abbiano obiettivi e strategie diverse, entrambe cercano di affrontare le sfide ambientali e promuovere la sostenibilità. Resta da capire (ma è un esercizio facile) perché i primi siano stati ricevuti da governo e ministri e abbiano ottenuto il dietro front su provvedimenti fiscali che li penalizzavano, mentre i secondi siano stati derisi e insultati e abbiano ottenuto per loro solo l’inasprimento di sanzioni penali “ad personam”. Esiste forse una graduatoria sui modi di manifestare il proprio dissenso su questioni tutte egualmente di rilevanza collettiva?
Appartengo alla generazione delle proteste studentesche del ’68 e del ’77, che pure sono state funestate da tragici episodi di violenza con morti, ma nessuno può negare che esse abbiano finito per avere un impatto significativo sulla società italiana e mondiale, portando a cambiamenti nei valori, nelle istituzioni e nelle relazioni tra classi sociali. Il 1968 e il 1977 furono anni di grande fermento sociale in Italia. Molto più di una semplice protesta contro il disfunzionamento delle scuole e delle università, è stato un tentativo di ribaltare i valori dominanti dell’epoca. Gli studenti cercarono di coinvolgere la classe operaia, spostarono le loro proteste dalle università alle fabbriche e studenti e lavoratori scesero in piazza insieme per protestare contro le condizioni di vita, la disoccupazione, la repressione politica e la violenza della polizia. Certo, gli anni ’60 e ’70 erano caratterizzati da una forte polarizzazione politica, dalla Guerra Fredda e da movimenti di liberazione. Gli studenti del ’68 si sono scontrati con l’autorità e hanno cercato di creare una rivoluzione culturale. Gli attivisti di Ultima Generazione e gli agricoltori chiedono sempre una rivoluzione culturale ma operano in un contesto diverso, con sfide come i cambiamenti climatici e le nuove tecnologie digitale ed è innegabile che la società italiana abbia subito profondi cambiamenti nel corso di questi primi anni del 21° secolo.
Ma è grazie sia agli studenti dello scorso secolo che ai protagonisti del secolo odierno che la società italiana ha mostrato una crescente attenzione verso i cambiamenti climatici nel corso degli ultimi anni. È cresciuta la consapevolezza scientifica: gli italiani sono sempre più informati sui cambiamenti climatici grazie alla ricerca scientifica e alla divulgazione. È mutato, nella società, l’impatto economico: eventi estremi come alluvioni, ondate di calore e siccità continuano ad avere un impatto negativo sull’economia italiana, facendo toccare con mano gli effetti del climate change. Le imprese, soprattutto quelle di piccole dimensioni, sono influenzate da queste calamità. Ad esempio, la perdita di alveari e insetti impollinatori ha conseguenze sulla produzione alimentare. L’Italia è sempre più coinvolta in un processo di aumento dei flussi migratori, scambi culturali e interconnessioni economiche. Questo porta a una maggiore diversità culturale e a una società più aperta e l’attenzione all’ambiente, la diversità e l’inclusione sono diventate tematiche importanti.
Ma è rimasa scarsa la partecipazione pubblica: la società italiana non partecipa ancora direttamente a manifestazioni, iniziative e campagne per sensibilizzare sull’importanza della sostenibilità ambientale, forse perché si sono aggravate, e molto, le diverse crisi economiche del nuovo secolo, con impatti sulle opportunità di lavoro, la disoccupazione giovanile e la crescita economica.
Gli anni ’60 e ’70 hanno posto le radici dell’ambientalismo anche se durante quel periodo, l’ambientalismo era profondamente legato alla classe operaia. Gli attivisti consideravano l’ecologia come parte del codice genetico della soggettività operaia. L’idea era che l’inquinamento industriale nelle fabbriche avesse un impatto diretto sul territorio circostante. Pertanto, l’ambientalismo veniva visto come una lotta per la salute e per una nuova società. L’ecologia è stata considerata parte dell’igiene industriale e cambiare le condizioni di lavoro significava inevitabilmente affrontare anche i problemi ambientali.
Concetti datati ma allo stesso tempo attualissimi che descrivono una prospettiva di impegno comune anche per le diverse generazioni. È vero che parlare oggi di “classe operaia” è un nonsense con i sistemi produttivi che hanno incorporato la produzione di servizi oltre che di beni. Non esistono più, o sono molto pochi, i grandi concentramenti operai in un unico stabilimento. Ma i lavoratori obbligati a vendere la propria forza lavoro per vivere, esistono ancora, si è diffuso il precariato e gli operai continuano a prendere salari da fame continuando a sottostare a ritmi frenetici. Nonostante ciò, rappresentano ancora oltre un terzo degli occupati. Tuttavia, nel dibattito pubblico, sono praticamente invisibili. La spinta europea su Environment (Ambiente), Social (Sociale) e Governance (Gestioni Aziendali), non è dissimile da quella sui temi al centro del dibattito del secolo scorso. Il contrasto alla globalizzazione economica e finanziaria che sollecita allevamenti intesivi, inquinanti e senza un nesso funzionale con un fondo in un’agricoltura altrettanto intensiva che si vorrebbe regolata dai computer con gli agricoltori sostituiti da robot automatizzati, rappresenta solo una nuova prospettiva delle proteste contro l’utilizzo distorto delle nuove tecnologie nate nel 20° secolo. La grande distribuzione organizzata che impone da sempre il ricatto di prezzi d’acquisto non remunerativi costringendo gli agricoltori a organizzare la produzione con la maggior compressione possibile dei costi, anche a scapito della qualità e della sicurezza alimentare, è la stessa che le associazioni dei consumatori (almeno alcune) hanno iniziato a denunciare negli anni ’80, proponendo (inascoltate) un’alleanza con gli agricoltori. Le contestazioni per l’inquinamento dell’aria erano già nei programmi degli studenti degli anni ’70 e sono ancora in quelli degli attuali attivisti climatici, semmai con maggiore consapevolezza di una realtà ulteriormente aggravata. La forte opposizione della fine del secolo scorso ai programmi nucleari e alle centrali nucleari è ritornata d’attualità. Così come i temi, già introdotti allora, della giustizia sociale e della pace, ci coinvolgono ancora oggi come ieri.
Probabilmente l’entusiasmo iniziale della mia generazione ha finito per essere un effimero entusiasmo. Ma la comprensione dell’interconnessione tra pace, salute, lavoro, ambiente e sociale continua ancora oggi a influenzare il dibattito attuale e rappresenta un nuovo terreno di impegno intergenerazionale, perché non sia un’Ultima Generazione per nessuno.
Giuseppe d’Ippolito