L’inquinamento enorme della Valle Padana, la rivolta contadina in tutt’Europa, le guerre in corso in Ucraina e Palestina, la repressione degli studenti che manifestano e, persino, le decisioni del Parlamento Europeo e le elezioni in Sardegna: cosa hanno in comune tutti questi eventi? cosa hanno a che fare con il cambiamento climatico?
Non si tratta di cercare complotti o improbabili ragioni esoteriche, ma di capire il comportamento umano partendo dal fatto che nell’uomo, un animale simile agli altri, il mutamento dell’Ambiente in cui si vive crea inquietudine. Ne abbiamo avuto un esempio durante la pandemia e l’isolamento che ha creato per lunghi periodi. Le diverse condizioni in cui siamo costretti da alcuni anni tra siccità e inondazioni e l’aumento costante delle temperature, hanno modificato molti comportamenti e scosso molte convinzioni.
Come fanno gli animali prima dell’arrivo di una tempesta, anche l’uomo – senza averne chiara comprensione – vuole fuggire dalla situazione di disagio e spesso sviluppa comportamenti di reazione incongrui. In particolare, la nostra natura di animale sociale ci porta a trovare nella relazione cooperazione/antagonismo lo strumento per cercare soluzioni. La spinta a reagire aggredendo, la vediamo sotto i nostri occhi ogni giorno attraverso le immagini delle guerre, mentre ci consolano le immagini di chi salva le persone in mare, tipico esempio di cooperazione, priva di quelle motivazioni apparentemente razionali che devono giustificare una aggressione prolungata come la guerra. Tra questi estremi vi è una gamma infinita di comportamenti che condizionano il nostro agire e le stesse strutture della società in cui viviamo.
Un piccolo esempio ci è dato dall’inquinamento della Valle Padana, notizia addirittura banale per gli addetti ai lavori, che è passato come un semplice fatto di cronaca, minimizzato dalle autorità locali di qualunque parte politica. Le cause di questa situazione sono le più varie: coltivazioni intensive, industrializzazione massiccia, alta densità di popolazione, tutti fattori che favoriscono l’inquinamento, un problema che colpisce non solo le grandi città o le aree industriali ma l’intera macroregione. Ma a concorrere al primato di inquinamento della valle del Po c’è innanzitutto un dato geografico: la peculiare conformazione della zona, una specie di catino chiuso da montagne, che ora cambia il suo clima. A prolungati periodi siccitosi seguono rapidi mutamenti, con piogge torrenziali che scaricano la stessa quantità di acqua di alcuni mesi in poche ore, seguite successivamente da correnti atmosferiche che creano stagnazione ed alta pressione con temperature miti durante la stagione invernale. Non ci sarebbero conseguenze terribili se l’uomo non avesse aggravato gli effetti con le attività produttive volte allo sfruttamento per profitto delle condizioni d’insediamento: le industrie hanno inquinato approfittando della disponibilità idrica e del clima stabile, con produzioni ora difficili e costose da rimuovere; sono state costruite piste da sci (ora inutilizzabili) per sviluppare un turismo di massa che, senza neve, ora è in caduta libera; sono state create strade e sentieri percorsi da migliaia di persone in potenziale pericolo, perché su montagne che si sgretolano dietro l’erosione causata dalle nuove condizioni atmosferiche; si è sviluppata la coltivazione di piante ad alta produttività e consumo idrico proprio nei periodi diventati siccitosi; si è creato l’allevamento zootecnico intensivo ed un’industria agroalimentare concentrata che ha aumentato gli effetti del cambiamento climatico. Questa realtà viene minimizzata dalle autorità nel tentativo di tamponare la situazione e che, in assenza di alternative, trova il consenso di ampi strati della popolazione quando cede a piccole concessioni, come potrebbe avvenire nel caso della protesta degli agricoltori. Vi è una sottovalutazione irresponsabile: non trovo altre giustificazioni alle incertezze del Parlamento Europeo sulla transizione ecologica, il cui effetto sarà di dilazionare di alcuni anni la ricerca di soluzioni migliori. Non è detto che tale prospettiva, ritenuta da molti saggia e responsabile, si riveli in realtà produttiva, poiché chiudere gli occhi sperando di svegliarsi da un brutto sogno non aiuterà le prossime generazioni.
La transizione della società dinanzi ai cambiamenti climatici implica profondi cambiamenti sociali: una società di anziani come quella nostra ha bisogno dell’apporto immediato di giovani. Pertanto le politiche di aumento delle nascite sono false soluzioni perché il loro risultato (le nuove leve) sarà disponibile tra vent’anni, quando sarà inutile perché tutto sarà già diverso. Credere in questa politica, chiudendo le frontiere alle migrazioni ed alla gioventù in arrivo, segna la fine della società che pratica tali soluzioni: è già avvenuto in passato ed avverrà ancora.
Sarà questo il destino che noi ci costruiamo se privilegiamo l’antagonismo alla cooperazione, se preferiamo costruirci un mondo su misura piuttosto che rispettare la natura e moltiplicare le nostre relazioni sociali e le politiche di mutuo aiuto. Nel processo che si sviluppa agendo in questo senso e privilegiando azioni positive è contenuto ciò che chiamiamo democrazia. Essa non è un fatto compiuto, scritto da menti eccelse su tavole di pietra, ma è il frutto della discussione e della mediazione che può dare solo la cooperazione tra uomini, animali e natura. Si tratta della costruzione di quello che Annamaria Rivera definisce nei suoi scritti “l’universalismo policentrico” e che il Papa ha descritto bene nella sua recente intervista con Fazio parlando, da uomo, dei giovani da difendere, contro il commercio delle armi e le guerre.
Gianfranco Laccone