Alcuni nostri lettori ci hanno scritto chiedendoci di spiegare meglio il collegamento, che stiamo proponendo da alcune settimane, tra la tutela ambientale e climatica e una corretta alimentazione. Abbiamo già cercato di farlo nelle introduzioni agli articoli dei nostri partner e, in particolare, dei nostri amici di ACU (Associazione Consumatori Utenti), ma volentieri ritorniamo in argomento. Per spiegarlo in modo semplice, partirò dal chiarire alcune idee che noi di ClimateAid Network riteniamo fondamentali: 1) la transizione nella quale crediamo è una “giusta” transizione, anche dal punto di vista sociale; 2) consideriamo il tema della sicurezza climatica strettamente legato a quello della garanzia della sicurezza alimentare e vorremmo che, entrambi, fossero considerati diritti dell’umanità.
Due elementi, recenti ma ormai entrati nella storia, dovrebbero farci riflettere: innanzitutto la pandemia da Covid dalla quale siamo usciti con difficoltà e notevoli sacrifici, che ha insegnato al mondo intero la volatilità del concetto di confini tra stati, in tema di salute pubblica. Solo strategie comuni e solidali a livello globale sono servite a combatterla, seppur applicate con modalità differenti nei diversi paesi e con il riproporsi di vecchi interrogativi (quello sull’eticità dei brevetti sui farmaci, ad esempio). È stato, comunque, un segnale forte con un forte effetto pedagogico per tutta l’Europa e il mondo. Medesimo forte segnale in questi ultimi anni ci sta lanciando la natura con il mutamento delle condizioni climatiche che hanno accelerato e incrementato il susseguirsi di eventi estremi, causa di lutti e rovine, fenomeni migratori, modifica delle condizioni di vita.
Ma non tutti hanno vissuto (e vivono) queste avversità nel medesimo modo. Le differenze le stiamo registrando in termini geografici, a secondo della parte del mondo colpita, ma anche e soprattutto in termini sociali. Oltre 45 milioni di bambini, nell’Africa orientale e meridionale, hanno dovuto abbandonare la loro casa per il riscaldamento globale; il Malawi ha dovuto dichiarare lo stato di calamità in 23 provincie su 28 dove i ritmi dell’agricoltura sono stati stravolti da una serie di inondazioni alternate a lunghe stagioni secche spingendo 4,6 milioni di minori sull’orlo della carestia; in Zambia le piogge senza fine cui è seguita una fortissima siccità hanno portato a 22 mila casi di colera; nel sud del Madagascar in questo momento 262 mila bambini soffrono di malnutrizione acuta (dati dall’ultimo rapporto dell’UNICEF).
L’antropogenesi di questi fenomeni è nota ma è anche evidente nella progressiva distruzione degli ecosistemi, che ha la sua causa principale in un modello di sviluppo economico e finanziario che si continua a dimostrare impermeabile ad ogni tipo di cambiamento, specie nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, che dovremmo invece iniziare a chiamare “paesi vittime dello sviluppo altrui”.
Produrre sempre di più per consumare sempre di più, senza limiti, senza condizioni, sfruttando sempre più le limitate risorse del pianeta, guidati dalla rincorsa al profitto. Ricorrendo anche ad ausili artificiali e dannosi per il genere umano, per sostituire la risorse naturali, specie quando queste diminuiscono, quando non sono sufficienti a soddisfare una domanda, anch’essa artificialmente creata, quando possono essere sostituite da tecnologie che garantiscono maggior profitto. Come se fosse possibile creare una biodiversità alternativa, magari digitale.
Abbiamo ormai imparato dalla scienza che una forte responsabilità per i mutamenti climatici è attribuibile alle aumentate emissioni di CO2 e gas serra, causate dall’utilizzo di fonti fossili. Ma una responsabilità non minore hanno i sistemi alimentari attuali, fondati su allevamenti e agricoltura intensivi e sostenuti da una rete di supermercati e di altre catene di intermediari di varia natura, fortemente centralizzati e capaci di mantenere alti i consumi dei singoli e, dunque, reattiva la propria economia.
In quest’ultimo sistema si sono rotti i meccanismi di solidarietà e di conservazione degli ecosistemi. Volete un esempio? Ogni anno, nel mondo, vengono sprecate 1,3 miliardi di tonnellate di cibo (dati FAO). Questo quantitativo rappresenta circa un terzo della produzione mondiale di alimenti e si stima che 2,1 miliardi di tonnellate di cibo sarà gettato via nel 2030 per un valore di circa mille miliardi di dollari. Per mettere in prospettiva questa cifra, immaginate 23 milioni di camion da 40 tonnellate ciascuno, messi in fila, che farebbero sette volte il giro della Terra. È un impatto enorme, considerando che 795 milioni di persone soffrono ancora la fame. Ridurre lo spreco alimentare è cruciale per la sostenibilità globale: non solo aiuterebbe a nutrire chi ha bisogno, ma anche a ridurre le emissioni di gas serra e a preservare le risorse naturali. Ecco perché è auspicabile che, insieme alla transizione ambientale e climatica si parli anche di una vera e propria “transizione alimentare”.
Al di là dell’invereconda affermazione “i poveri mangiano meglio”, la verità è che, oggi, la gran parte di noi mangia peggio e con maggior danni per l’ambiente. Perché accanto ad una maggioranza che deve scegliere quotidianamente tra alimentarsi o vestirsi o riscaldarsi e che certamente finisce per scegliere il basso costo e non la maggiore qualità, i restanti consumatori sono ormai succubi di una produzione industriale che incentiva il consumo sfrenato e illimitato (lo testimonia la quantità di cibo gettata via) di prodotti alimentari pieni di additivi addensanti, emulsionanti, stabilizzanti, ecc., che a tutto servono tranne che a tutelare la salute della collettività e a salvaguardare gli ecosistemi. Per questo gli amici di ACU non solo ci hanno chiesto di scriverne su questo sito e noi gli abbiamo dato ospitalità ben volentieri (e continueremo a farlo), ma hanno addirittura progettato regole tecniche di produzione di alimenti e bevande senza additivi (la Prassi di Riferimento elaborata in sede UNI, 57:2019, che trovate cliccando qui), unica associazione di consumatori a farlo.
La convinzione che ci guida è che il cibo non deve essere più considerato come una merce e che l’alimentazione, come la sicurezza climatica, devono essere diritti umani, entrambi a garanzia della sopravvivenza.
Ci sta tentando in qualche modo la Commissione europea con il piano decennale “Farm to Fork”, approvato dal Parlamento Europeo il 19 ottobre 2021, elaborato per guidare la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente. La strategia mira a raggiungere gli obiettivi del Green Deal europeo, compresi quelli relativi al clima, alla biodiversità, all’inquinamento zero e alla salute pubblica. Si concentra su regimi alimentari sostenibili e rispettosi degli animali. Prevede il coinvolgimento di tutti: dall’agricoltore al consumatore, ciascuno ha un ruolo da svolgere per garantire una filiera alimentare più sostenibile. Gli agricoltori dovrebbero ricevere una parte equa dei profitti derivanti da alimenti prodotti in modo sostenibile.
Ma le contraddizioni (e le resistenze) sono forti anche e soprattutto a livello europeo. Tanto che, solo due anni dopo, la stessa Commissione ha proposto e gli Stati europei (compresa l’Italia) hanno autorizzato, la proroga all’uso del glifosato in agricoltura per ulteriori dieci anni. E si parla di un diserbante che, può rimanere attivo per lungo tempo nel suolo, nelle acque superficiali e nelle falde acquifere di profondità e, oltre ad essere sospettato di una forte cancerogenesi, di malattie croniche e disturbi endocrini, nelle migliori delle ipotesi è fonte di irritazioni severe, disturbi gastrointestinali, polmonari, renali ed epatici. Dovremo forse anche noi attrezzarci per fare analisi sugli alimenti in proprio, come fanno i nativi d’Alaska, secondo quanto ci riferisce Emilio Senesi nell’articolo qui in questa pagina nel segmento dedicato ai contributi DAI NOSTRI PARTNER?
È vero, e non posso non darne atto, le nostre condizioni di vita sono notevolmente migliorate da quando i nostri nonni e bisnonni si nutrivano veramente con cibo che arrivava dalla fattoria alla tavola e vivevano in un rapporto simbiotico con la natura, come ancor oggi fanno, ad esempio, gli Athabaschi, gli Aleuti e gli Yup’ik in Alaska. Ma l’umanità sta pagando un prezzo altissimo per questo sviluppo legato all’iperproduttività e al consumismo. Lo paghiamo in termini di aumento di malattie croniche, cancro, insufficienze respiratorie, allergie, ecc.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le aspettative di vita sono di gran lunga aumentate dagli anni sessanta, ma con una notevole differenza tra le varie regioni del mondo (es. media Europa 73,9 anni; Africa Occidentale 57,7 anni) e con la specificazione che circa il 24% di tutte le malattie nel mondo è dovuto all’esposizione a fattori ambientali. Questi fattori includono l’inquinamento atmosferico, l’esposizione a sostanze chimiche tossiche, la mancanza di accesso all’acqua potabile pulita e altre condizioni ambientali sfavorevoli.
Transizione climatica e transizione alimentare sono quindi strettamente legate, devono marciare di pari passo per essere una transizione “giusta”. E la transizione o è “giusta” o non è.
Altrimenti iniziamo con il domandarci a cosa dovremo rinunciare, già da oggi.
Giuseppe d’Ippolito