La notizia della privatizzazione di Poste Italiane SpA è stata data dai giornali in un articolo di poche righe nelle pagine interne. Eppure dovrebbe essere una notizia importante, poiché con l’approvazione alle Camere del decreto, si avvia la vendita della seconda (e ultima) trance del pacchetto azionario di proprietà dello Stato di Poste Italiane SpA (PI SpA), attualmente in mano al Ministero di Economia e Finanza (MEF).

 

Diversi sono gli aspetti rilevanti e le conseguenze a medio e lungo termine di un fatto sottovalutato dai parlamentari autori dell’operazione: si tratta non solo di privatizzare la società che svolge il servizio universale (consegna di posta, pacchi, raccomandate) e la raccolta capillare del piccolo risparmio (depositi fruttiferi, conti correnti, bancoposta) ma soprattutto di cedere il controllo dello Stato sui nuovi “servizi universali” in via di attivazione e di progressiva predominanza dell’intervento di Poste Italiane: il sistema dei pagamenti verso la pubblica amministrazione, la gestione dei dati personali, l’accesso ai servizi pubblici; tutti servizi in fase di riorganizzazione (soprattutto informatica), il cui risultato ridisegnerà l’assetto dei mercati ed in cui è attivamente impegnata la società le cui azioni pubbliche sono messe in vendita.

Scatole di cartone su un nastro trasportatore in magazzino

Questa privatizzazione, giunta al termine di un ciclo che ha coinvolto tutti gli investimenti fatti dallo Stato durante il boom economico, è forse la peggiore e meno giustificabile tra tutte quelle effettuate. Meraviglia il fatto che non ci sia stata né a livello parlamentare, né tra le forze sociali una discussione pubblica ed un’analisi critica di tutte quelle sino ad ora effettuate prima di avviarne un’altra, anche perché gli aspetti oggi predominanti del cambiamento climatico non erano affatto presi in considerazione trent’anni fa quando fu fatta la legge per privatizzare gli investimenti di Stato.

Ma cosa c’entra un fatto economico con l’ambiente e il cambiamento climatico? C’entra direttamente perché, parlando di servizi universali come nel caso delle Poste, la loro sostenibilità è fondamentale per la riuscita della lotta al cambiamento climatico e, indirettamente, perché le azioni e gli interventi di chi li gestisce sono rilevanti per dare impulso ed orientare i cittadini.
Le cosiddette “privatizzazioni”, viste sotto questo aspetto, assumono un significato molto diverso da quello che viene correntemente dato. Se guardiamo un qualsiasi manuale di economia, la privatizzazione comporta un duplice vantaggio: da una parte si riducono le spese dello Stato in termini di gestione (oltre a fare gettito nella “vendita“), dall’altra si registra (teoricamente) una maggiore efficienza di gestione da parte del privato. Questi aspetti ne occultano altri, come la riduzione degli introiti che deriva dalla cessione e, soprattutto, non considerano i possibili costi ambientali e di sicurezza di cui sicuramente il privato non si farà carico e di cui spesso lo Stato non ne calcola l‘entità.

In questo la vendita ai privati di un servizio postale non si differenzia molto da quella di un centro siderurgico, anche perché si tratta di una operazione complessa in grado di modificare gli assetti economici del Paese. Nel caso delle poste, lo Stato non sarà più presente direttamente nella proprietà (attraverso il MEF ha una quota azionaria del 29,26%), ma solo tramite la quota di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, azienda in cui a sua volta il MEF detiene la quota di maggioranza e che, dal lontano 1875, gestisce il risparmio postale italiano.

Tornando alla valutazione sulla privatizzazione, la Corte dei Conti, in un documento pubblicato il 10 febbraio 2010, quando ormai si era ultimata la stagione delle privatizzazioni che prese il via quasi 20 anni prima e quella delle Poste non si era ancora avviata (partì con la prima trance nel 2015), ha elaborato la propria analisi sull’efficacia dei provvedimenti adottati, segnalando che il recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato non è dovuto alla ricerca di maggiore efficienza quanto piuttosto all’incremento delle tariffe ( energia, autostrade, banche, ecc.) ben al di sopra dei livelli di altri paesi europei. A questo aumento, inoltre, non avrebbe fatto seguito alcun progetto di investimento volto a migliorare i servizi offerti. Concordiamo pienamente su tale analisi e, in particolare, sul giudizio sulle procedure di privatizzazione,  che «evidenzia una serie di importanti criticità, che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito

Splendido spazio per uffici in stile cartone animatoCosa è avvenuto dopo la prima privatizzazione delle Poste? Come ACU (Associazione Consumatori Utenti), abbiamo rilevato un aumento delle segnalazioni di malfunzionamento del servizio al pubblico. Ad esempio, a causa della consegna postale a giorni alterni e rarefatti dal 2016 in poi, è capitato di non ricevere comunicazioni importanti o di saltare appuntamenti e di aumentare le discussioni con il personale di turno per questi disguidi, benché esso sia spesso incolpevole per gli accaduti. Perché si privatizza per rendere “efficiente” un servizio senza chiarire che la prima efficienza (spesso l’unica) è solo quella economica, ma non è esattamente la ragione dell’istituzione di un “servizio universale” come quello postale.  Sono stati eliminati dal territorio nazionale 1900 uffici postali, collocati in territori in maggioranza dei casi già scarsamente serviti. Territori difficili a cui non ha giovato l’eliminazione di un ufficio che si identifica come un presidio di civiltà per i percorsi di valorizzazione dei territori stessi. In essi si dovrebbero investire fondi strutturali comunitari per lo sviluppo ma, eliminando servizi essenziali (farmacie, scuole, uffici postali, ecc.), pensiamo che il loro impiego sia più efficace? Pensate che la riorganizzazione del servizio postale in molti casi non abbia inciso negativamente sulla scarsa efficienza e riuscita dei progetti di sviluppo? Nei progetti di riqualificazione del territorio un indicatore positivo è l’intersettorialità, ma la valutazione degli ESG (indicatori ecologici, sociali e di governance) è mai stata svolta prima di chiudere gli uffici? Si è mai pensato di valorizzare le funzioni degli uffici postali negli interventi strategici con l’utilizzo dei fondi comunitari, cercando di riqualificarne il ruolo invece di chiudere?

Confermando le valutazioni sulle privatizzazioni della Corte dei Conti, i conti delle Poste Italiane SpA sono stati migliorati con la riduzione del personale poiché i 28.000 addetti in meno dal 2015 ad oggi sono stati sottratti nella stragrande maggioranza alle lavorazioni che direttamente interessano gli utenti e il personale  è stato collocato nelle aree di maggiore profitto per l’azienda sguarnendo ulteriormente giorno dopo giorno risorse dedicate ai servizi per i cittadini, i quali sono spinti sempre più a rapportarsi con un bancomat e non con le persone.
Questa tardiva privatizzazione avviene sotto il mito di due sogni che nel tempo si sono rivelati un incubo: il sogno del servizio pubblico che potrebbe permettere la garanzia dei diritti di tutti, assieme al profitto di alcuni privati e quello dello sviluppo di un azionariato popolare che permetterebbe anche ai meno abbienti di usufruire dei benefici del mercato dei capitali. Il mercato dei capitali si è rivelato un luogo in cui le truffe (dette eufemisticamente “bolle finanziarie”) sono all’ordine del giorno e ne fanno le spese i creduloni e l’ambiente e l’azionariato popolare è il sogno dei sindacalisti e dei parvenues, di entrare nel salotto buono comperando il vestito delle grandi occasioni ai grandi magazzini; l’esempio più noto è quello del fallimento dei fondi pensione in cui erano stati depositati i risparmi di tanti lavoratori col miraggio di vedere rivalutata nel tempo la loro pensione in modo automatico.

Cassetta Delle Lettere, Ufficio Postale

È necessario esprimere una maggiore creatività nella partecipazione del personale e degli utenti che superi gli schemi obsoleti degli azionariati popolari. Il passaggio dalla proprietà pubblica all’azionariato popolare comporta una riduzione proprietaria (tra i meno abbienti solo coloro che hanno un piccolo capitale restano proprietari di qualcosa) ed un’evoluzione verso un sistema di profitto (perché chiunque investa anche una piccola somma, punta al profitto). E poi, nel gestire un servizio universale, l’azionariato popolare risulta già perdente difronte alla concorrenza di gruppi come Amazon e se qualcuno mostra propensione per “fare impresa”, sarebbe più interessante che s’impegni in società “benefit”, i cui ricavati possono essere indirizzati verso specifici interventi d’interesse pubblico o verso soggetti che operano in quell’ambito.

La difesa di un servizio universale è un passo verso la lotta al cambiamento climatico, un fatto evidente come è evidente il peggioramento delle condizioni climatiche con la riduzione dei diritti e delle tutele per tutti.
Per questo riteniamo che i profondi mutamenti del contesto internazionale debbano essere seriamente presi in considerazioni prima di avviare dismissioni di ogni genere: la fine del multilateralismo e le guerre in corso avranno serie ripercussioni sui diritti e sui servizi per tutti i cittadini, a prescindere dall’esito finale.

Non tenerne conto ci sembra, quanto meno, da incoscienti.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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