Nel Consiglio dei ministri di lunedì 6 maggio è stato approvato il decreto-legge “Disposizioni urgenti per le imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura, nonché per le imprese di interesse strategico nazionale” che ha in particolare coinvolto due Ministri: quello dell’Agricoltura, Sovranità alimentare e Foreste e quello dell’Ambiente e Sicurezza energetica. Ha prevalso il primo, giacché il decreto regolamenta in modo stringente l’uso dei pannelli fotovoltaici in terreni agricoli, ponendo come priorità la produzione agricola. La visione del Governo, come sottolineato dal ministro dell’Agricoltura, è che la produzione energetica deve essere compatibile e non in conflitto con quella agricola, riflettendo un approccio di sostenibilità e integrazione. Vediamo insieme qual è la realtà.
Credevo che i miei lunghi anni di attività da operatore del diritto, mi avessero abituato a tutto. Mi sbagliavo. Gli ultimi periodi di produzione legislativa hanno superato ogni mia più pessimistica previsione. Proprio nel momento in cui il surriscaldamento globale d’origine antropica, richiede l’emanazione di provvedimenti (alcuni imposti dai necessari recepimenti di direttive UE) chiari, d’immediata applicazione e collegati ad obiettivi necessari e imprescindibili, il nostro legislatore si trastulla scrivendo principi e linee guida generici e mere riproposizioni di principi globali o comunitari, senza alcuna concreta indicazione sulle politiche industriali, da programmare necessariamente per ciascun settore economico e senza alcuna attenzione agli interessi dei cittadini.
Una bulimia normativa che in alcuni casi ha preceduto l’esistenza di un problema di mercato, che forse mai ci sarà (es. norme sulla carne coltivata) o, in altri, che vorrebbe disciplinare fenomeni tecnologici prima che sia completata la loro sperimentazione (es. regolamentazione della intelligenza artificiale), parlando sempre molto di tecnologia e molto poco di scienza. O che adotta estemporanee normative che danneggiano, palesemente, coloro che si dichiara di voler proteggere e impediscono la realizzazione degli obiettivi proclamati a livello internazionale per lo sviluppo tecnologico ed energetico del Paese (es. la recentissima guerra al fotovoltaico nel cd. decreto Agricoltura di qualche giorno fa). Senza peraltro tenere in alcun conto chi ha pianificato investimenti sul presupposto di un legittimo affidamento sugli impegni presi dall’Italia nel mondo.
Le normative di questi ultimi anni finiscono così per caratterizzarsi per la loro contraddittorietà; per l’immancabile ritardo delle norme attuative; per la disciplina di interi settori senza valutazione attenta degli effetti sul sistema-paese, cui seguono abrogazioni o nuove norme applicate retroattivamente, producendo lesioni ai diritti acquisiti o rimanendo indifferenti ai legittimi affidamenti di interi comparti economici.
Ma torniamo al recentissimo decreto che dichiara guerra aperta al fotovoltaico nelle terre incolte, ma a destinazione agricola, vietandolo senza eccezioni. Una norma che si pone in aperto contrasto con gli obiettivi di moltiplicazione delle fonti rinnovabili, annunciati dai rappresentanti apicali del nostro paese, con gran clamore, nell’ultima Cop 28 di Dubai e in conclusione del recentissimo G7 di Torino.
Sui terreni agricoli saranno vietati gli impianti collocati a terra, che impediscono la coltivazione. Vengono salvati gli impianti di questo tipo che hanno già presentato istanza, per non vanificare gli investimenti già avviati. E vengono salvati anche gli impianti fotovoltaici delle comunità energetiche rinnovabili, finanziate da una misura apposita del Pnrr. Il decreto concede di installare i pannelli in terreni agricoli “compromessi, come quelli fino a 300 metri dalle autostrade o fra autostrade e ferrovie“.
Gli operatori del settore hanno già chiarito che così andranno a farsi benedire dli obiettivi, previsti nel Piano Nazionale Energia e Clima (PNIEC) che prevedono di istallare altri 40 gigawatt (75 GW previsti dal Piano italiano per la transizione ecologica) entro il 2030. E hanno anche aggiunto che i costi dell’elettricità da fonti rinnovabili, attualmente i più economici, finiranno per aumentare in modo esponenziale con le immancabili ricadute sulle bollette di ognuno di noi. Inoltre si ridurrà la forbice della convenienza economica che oggi divide le fonti fossili da quelle rinnovabili, senza parlare dei mancati benefici per l’ambiente e la salute collettiva.
I sostenitori del nuovo decreto sostengono che esso è finalizzato a ridurre il consumo del suolo agricolo. Ma, a parte che il consumo di suolo associato agli impianti fotovoltaici è reversibile, in quanto essi possono essere facilmente rimossi alla fine della loro vita utile, il problema della disponibilità del suolo non esiste da un punto di vista tecnico, perché in Italia ci sono 1,2 milioni di ettari di superficie agricola non utilizzata (dati Terna). E per sviluppare le rinnovabili di cui si avrebbe bisogno in Italia al 2030 per decarbonizzare il mix elettrico, stando ai target del piano REPowerEU, secondo GSE, si occuperebbe appena lo 0,3% del suolo nazionale (meno di un terzo del suolo occupato da piazzali e parcheggi) e solamente lo 0,6% della superficie agricola nazionale, ciò nella teorica ipotesi di costruire gli impianti solo su aree agricole. (Tab. da Rapporto ISPRA)
Dal confronto dei dati degli ultimi due censimenti dell’agricoltura (rielaborati da ISPRA a fine 2023) si rileva un decremento complessivo a livello nazionale di 488 mila aziende (-30,1%) e 321 mila ettari di Superficie Agricola Utilizzata (-2,5%). Inoltre, dall’analisi della variazione della dimensione media delle aziende agricole, le Superfici Agricole Utilizzate sono passate da 7,9 a 11,1 ettari medi per azienda, evidenziando un notevole processo di concentrazione dell’imprenditoria agricola. (Tab. da Rapporto ISPRA)
Per contrastare veramente il consumo di suolo occorrerebbe, semmai, una norma che favorisca la rigenerazione urbana e la semplificazione degli abbattimenti e delle ricostruzioni degli edifici esistenti, a partire da quelli nelle aree a rischio idrogeologico, quelli esteticamente più brutti e quelli che vanno resi più efficienti energeticamente e sicuri rispetto alla sismicità naturale del territorio nazionale.
La conclusione è che, mancando ancora la determinazione delle aree idonee nel paese per le istallazioni di rinnovabili, il divieto agli impianti fotovoltaici non aiuta gli agricoltori ma, anzi li danneggia, perché li priva della possibilità di mettere a reddito terreni abbandonati che, per miriadi di ragioni, anche logistiche, non è conveniente destinare a colture. E sono proprio gli agricoltori i primi a dover far fronte ai gravi fenomeni connessi ai cambiamenti climatici, come alluvioni e siccità. Allontanarsi dagli obiettivi di decarbonizzazione, promuovendo le fonti rinnovabili, non è certo un favore alla categoria. A questo aggiungo che se, malauguratamente, dovesse passare il progetto di autonomia regionale, ogni regione potrebbe regolare l’uso dei terreni rimanenti in modo diverso, imitando magari la regione Sardegna che ha appena deliberato una moratoria di 18 mesi sulle rinnovabili.
A chi serve allora il provvedimento? Innanzitutto a porre un divieto preliminare alla determinazione delle aree idonee, escludendone una bella fetta, ma anche ad espellere definitivamente dal mercato i piccoli agricoltori e l’agricoltura di prossimità. Lo ha scritto ISPRA: diminuiscono le piccole aziende, aumenta la grande imprenditoria agricola che ha bisogno di superfici sempre più estese a servizio di un’agricoltura intensiva e automatizzata. Si vuole portare a compimento un impianto che garantisca in primis il reddito delle grandi aziende agricole, capaci di assorbire la più gran parte dei sussidi offerti dall’Ue, come aveva sottolineato, in altre occasioni, la coalizione Cambiamo Agricoltura. Come rilevato dalla Commissione europea, circa l’80% dei sussidi italiani finiscono nelle mani del 20% delle aziende. Del resto, già nel 2022 gli esperti della Commissione europea avevano bacchettato l’Italia per aver formulato un Piano strategico nazionale per la Pac 2023-2027 che avvantaggiava troppo i grandi produttori e gli allevamenti intensivi, anziché le piccole realtà rurali. Il disegno non è mutato.
Rinunciare agli obiettivi ambientali, per favorire agricoltura e allevamenti intensivi, è un problema serio per i cittadini, che si ritroveranno con prodotti di qualità minore, acque più inquinate e maggiori rischi per la salute.
Giuseppe d’Ippolito