Il 18 giugno a Torino è iniziato il primo procedimento in Italia per inquinamento ambientale colposo. Fra gli imputati figurano gli ex sindaci del capoluogo piemontese, Piero Fassino e Chiara Appendino, l’ex presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, gli ex assessori regionali e comunali all’Ambiente Alberto Valmaggia, Matteo Marnati, Alberto Unia, Stefania Giannuzzi, e Enzo Lavolta. La procura contesta loro il reato di inquinamento ambientale colposo, previsto dall’articolo 452 bis del Codice penale. Questo processo potrebbe rappresentare, se continuerà, un importante passo nella lotta contro lo smog e la tutela dell’ambiente. Secondo i pubblici ministeri, gli amministratori pubblici in carica tra il 2015 e il 2019 non avrebbero preso le adeguate contromisure per contenere l’inquinamento. Sono state presentate 11 richieste di costituzione di parte civile da associazioni ambientaliste e privati cittadini. Respinta la richiesta di costituzione di parte civile avanzata dall’associazione Giustizia Climatica ora!, nata per iniziativa di alcuni esponenti di Fridays for future, in quanto l’associazione è stata creata in tempi successivi rispetto ai fatti contestati. Niente da fare anche per sette privati cittadini, mentre sono state ammesse le associazioni Torino respira, Greenpeace e Isde Medici per Ambiente. Prossima udienza il 4 luglio quando il giudice dovrà decidere se proseguire nel processo o dichiarare il non luogo a procedere.
Ribadisco subito che, a dispetto dei titoli di questi giorni, il processo vero e proprio non si è ancora aperto. A Torino il 18 giugno il procedimento è entrato nella fase pre-dibattimentale, introdotta dalla recente Riforma Cartabia (D.lgs. 150/2022), che per certi versi può essere paragonata all’udienza preliminare, cui si giunge mediante la citazione diretta a giudizio formulata dal pubblico ministero e che è un’udienza nella quale il Giudice, sentite accusa e difesa, ammessi -se richiesti- i riti alternativi (patteggiamento, rito abbreviato) e costituite le parti civili, dovrà decidere se sussistono i presupposti per affrontare il vero e proprio dibattimento oppure no. Le considerazioni che farò di seguito, quindi, non possono essere riferibili ai comportamenti degli imputati, nel rispetto della loro presunzione d’innocenza.
Il dato di fatto che i due pubblici ministeri hanno posto alla base della loro accusa è una relazione peritale, da loro disposta, a seguito di un esposto prodotto nel 2017 da un cittadino torinese che, preoccupato per la salute dei suoi tre figli, si è rivolto alla magistratura producendo una serie di documenti in cui si sosteneva che l’aria di Torino è malsana e, soprattutto, che le azioni delle autorità (Comune e Regione) nella gestione del problema sono state inefficienti. Secondo i consulenti tecnici della Procura della Repubblica (secondo quanto riferito dalla stampa locale) il continuo sforamento dei limiti di concentrazione degli inquinanti nell’aria stabiliti dalla legge che avrebbe provocato, nel periodo considerato (tra il 2015 e il 2019), oltre mille morti premature e numerosi ricoveri ospedalieri. Del resto, non che le evidenze scientifiche mancassero, anche prima dell’accertamento dei consulenti della procura piemontese. Ed esse, va detto ad onor del vero, non riguardano solo il Piemonte. Basterà leggere le relazioni dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (in questa pagina, ne IL MEGLIO DAL WEB, il collegamento ad uno dei tanti siti con relazioni dell’AEA), secondo cui, in tutt’Europa, nel 2021 appena dopo la pandemia di Covid, 293.000 decessi sono attribuibili all’esposizione alle concentrazioni di PM 2.5 superiori al livello di linea guida dell’OMS di 5 g/m 3 (l’Italia, ha riportato le più alte concentrazioni di particolato, principalmente a causa della combustione di combustibili solidi per il riscaldamento domestico e del loro uso nell’industria con ca. 50.000 morti premature); 69.000 decessi sono attribuibili all’esposizione a concentrazioni di NO2 superiori al livello di guida dell’OMS di 10 g/m 3; 27.000 decessi sono attribuibili all’esposizione a breve termine a concentrazioni di O3 superiori a 70 g/m.
Altro dato giuridicamente acquisibile: il fatto che Il 10 novembre 2020 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Italia per la violazione della direttiva europea sulla qualità dell’aria, al termine di un procedimento iniziato nel 2014. All’origine della condanna il superamento dei limiti per il particolato Pm10, ovvero la componente solida e liquida dell’inquinamento atmosferico con diametro inferiore a 10 micron. Ma procedimenti analoghi sono in corso anche per il biossido di azoto e per il Pm2,5, la componente ancora più fine del particolato.
Sulle valutazioni della magistratura peserà ora come un macigno (come del resto avevo previsto su queste pagine) la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu), che ha condannato la Svizzera per non avere adottato sufficienti misure a mitigare gli effetti del cambiamento climatico, perché essa “mette in luce il tema della discrezionalità amministrativa nella lotta al cambiamento climatico, centrale nel processo penale per inquinamento atmosferico” hanno dichiarato dal Comitato Torino-Respira, ammesso come parte civile nel procedimento in corso. In materia, i precedenti italiani non sono certo incoraggianti, basterà ricordare che il giudice di Roma, solo a marzo scorso, aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda nella causa climatica intentata nel 2021 contro lo Stato italiano da 203 attori, tra cui 24 associazioni e 179 individui, nota come Giudizio Universale. In quel caso il tribunale di Roma sentenziò il “difetto assoluto di giurisdizione” (peraltro dopo tre anni di udienze, pur trattandosi di questione preliminare!!!) sul presupposto che gli interventi a favore della mitigazione dei mutamenti climatici, definiti come “urgenza planetaria esistenziale”, investirebbero un’area sottratta al sindacato giurisdizionale, in quanto espressiva di attività politica, come tale insindacabile da parte del giudice, nonostante le numerose vincolanti prescrizioni derivanti dai trattati internazionali.
Questo è, a mio parere, lo snodo fondamentale nei giudizi climatici. È evidente infatti che il tema del contenuto e dei limiti del potere pubblico di decisione sull’emergenza climatica non è stato ancora approfondito dalla dottrina italiana, generando decisioni tradizionaliste della giurisprudenza. Questo spiega perché il dibattito sul contenzioso climatico verso lo Stato venga affrontato presupponendo che esso investa atti politici o comunque questioni di discrezionalità pura, non sindacabili da parte dei giudici. Sommessamente affermo che, invece, è di tutta evidenza come gli Stati abbiano effettivamente esercitato i loro poteri sovrani sulle questioni climatiche, accettando di autovincolarsi e di condizionare contenuti e fini dei propri atti proprio attraverso la sottoscrizione dei trattati internazionali. Del resto è un principio che risale almeno al 1969, con la sottoscrizione della Convenzione di Vienna (nota come il “Trattato dei trattati”), cui l’Italia ha aderito nel 1974, che trasforma tutti i trattati internazionali in diritto consuetudinario europeo che, come tale, può essere rimesso all’apprezzamento della magistratura. Si noti bene: la Convenzione di Parigi sul Clima del 2015 è un tipo speciale di trattato internazionale.
Se non bastasse questo, si consideri che il diritto climatico è stato definito, non a caso, un sistema normativo pro vita (M. CARDUCCI, Se il riscaldamento globale entra nei tribunali, in Micromega. Almanacco della scienza, n. 6, 2021, pp. 42 ss.) che rientra nella più vasta categoria dei diritti umani e i giudici hanno la responsabilità diretta per gli atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini. Questa responsabilità è prevista dalle leggi penali, civili e amministrative secondo i princìpi del diritto italiano a garanzia del neminem laedere. Peraltro, tutte le più recenti direttive stanno obbligando le imprese ad inserire nei loro report di Sostenibilità non solo i loro impegni a tutela dell’Ambiente ma anche a quelli in favore dei diritti umani, estendendo la responsabilità d’impresa a tutta la loro catena di valore ad esse collegate.
Ma, mi rendo conto di stare scivolando verso considerazioni di pura esperienza giuridica non adatte agli spazi di questo blog e, quindi, mi fermo qui non senza segnalare che il tema meriterebbe maggiori approfondimenti da parte, almeno, di tutti i giuristi interessati alla questione climatica.
Quello che sarà interessante vedere (il 18 giugno l’udienza si è svolta a porte chiuse e non sono riuscito a reperire informazioni più dettagliate), è se le difese dei vari Fassino, Appendino, Chiamparino, ecc., hanno utilizzato le stesse retrive argomentazioni sull’insindacabilità e sulla discrezionalità politica, utilizzate pochi mesi fa dall’Avvocatura di Stato nel Giudizio Universale, a difesa delle scelte (o, delle mancate scelte) dei governi in carica. Così come, ovviamente, sarà interessante vedere se il giudice del predibattimento deciderà di continuare il processo e quale sarà la decisione finale.
Il nostro appuntamento sarà, quindi, dopo l’udienza del 4 luglio.
Giuseppe d’Ippolito