Il 18 aprile scorso il “Corriere della Sera Pianeta 2030” pubblicava a pag.13 un articolo con il titolo: “Un ombrellone nello spazio (grande nove volte l’Italia). Il Piano B per fermare il Sole”. E, nell’occhiello, “Per difenderci dal surriscaldamento c’è chi rilancia l’idea di farci “ombra” con un sistema sospeso tra Terra e Sole. Costerebbe meno dell’energia pulita globale ma non avrebbe danni collaterali. Il tema alla Biennale Tecnologia di Torino”. Nell’articolo si dava conto di un dibattito scientifico, fondato su teorie prospettate sin dal 1989, della geoingegneria solare nello spazio. Sul presupposto che “siamo molto distanti dall’obiettivo di Cop 28 che ha definito a +1,5°C il limite dell’incremento della temperatura globale per il 2050”, si riportava una dichiarazione del prof. Marcello Romano (professore di impianti e sistemi aerospaziali al Politecnico di Torino e a capo del gruppo di ricerca Astradors che si concentra su Astrodinamica e Sistemi Orbitali Avanzati) secondo cui “per gli scienziati è una responsabilità etica cercare possibili piani B”. E il prof. Romano, descrivendo l’ipotesi di funzionamento dello Space Sunshade affermava:” Come durante il passaggio di Venere o Mercurio sopra il disco solare, lo stesso effetto si genererebbe ponendo un ombrello spaziale a circa 2,5 milioni di chilometri tra noi, in una zona d’equilibrio tra la forza gravitazionale della Terra e del Sole e l’effetto di pressione della luce solare. Secondo i climatologi questo basterebbe a contenere il riscaldamento globale senza che l’occhio umano percepisca un’alterazione in termini di luce. I vantaggi sono diversi: in primis è un sistema che opera nello spazio senza interferire con l’atmosfera. In secondo luogo, si tratterebbe di una soluzione reversibile e rimovibile. Infine, avrebbe una portata globale, senza dipendere dalle politiche locali, quindi di più facile agreement, con una conseguente omogeneità d’effetto.”
Non è la prima volta che scrivo di questi Piani B che taluni (es. Alan Robock, professore di scienze del clima alla Rutgers University, autore del comitato Intergovernmental Panel on Climate Change del 2007, premiato con il Premio Nobel per la Pace) definiscono come “stravaganti ipotesi”. L’ho già fatto il 16 febbraio 2023 nell’articolo “Polvere di … Luna” (lo trovate, cliccando qui) per commentare la notizia di uno studio pubblicato su PLOS Climate nel quale si riportava la proposta di un gruppo di astrofisici che ipotizzavano l’istallazione di un cannone sulla luna che sparasse polvere lunare nello spazio per aiutare a schermare parzialmente la luce solare sulla Terra. Questo approccio, così come quello di cui parla il Corsera, nasceva dalle idee apparse nel 1989 quando James Early del Lawrence Livermore National Laboratory propose di posizionare un sottile scudo di vetro largo 2.000 km tra il Sole e la Terra. Nel 2006, poi, l’astronomo Roger Angel ha esplorato l’idea di inviare trilioni di piccoli veicoli spaziali con scudi simili a ombrelli per bloccare il sole. E lo scienziato atmosferico Emmi Yonekura, uno scienziato della Rand Corp., ha invece proposto di utilizzare specchi spaziali per riflettere la luce solare lontano dalla Terra.
Non ero uno scienziato allora, non lo sono oggi; quindi, non ho conoscenze sufficienti che mi abilitino a disquisire nel merito di queste proposte. Ma sulla necessità di lavorare ad un Piano B, per ridurre il surriscaldamento globale, credo ancora di poter intervenire. E non per parlarvi, come ho già fatto nel 2023, degli interessi legati alla corsa per la conquista dello spazio.
Questa volta, invece, inizio con il raccontarvi un episodio che ho letto e di cui non so dirvi se fosse vero o falso, ma esso rende bene l’idea che sottopongo alla vostra attenzione. Nel 2016, degli scienziati dell’università della Pennsylvania hanno creato un esperimento sugli effetti del Piano B con due gruppi di soggetti. Entrambi i gruppi sono stati invitati a svolgere lo stesso compito: ricomporre delle frasi in cui le varie parole erano posizionate a caso. Il premio per i migliori sarebbe stata una barretta energetica. Ma con una differenza sostanziale: al primo gruppo è stato semplicemente fatto svolgere il compito, senza dare ulteriori indicazioni. Al secondo invece è stato detto di pensare al Piano B per ottenere la barretta. Quindi, parte della energia mentale del secondo gruppo è stata dedicata a pensare a una soluzione alternativa per ottenere la ricompensa, il tutto prima di svolgere lo stesso esercizio del gruppo A. Il risultato? Un calo delle performance nel secondo gruppo, che ha dimostrato come a livello mentale avere il Piano B sempre chiaro in testa diventa un modo per abbassare le performance sull’obiettivo.
È esattamente la preoccupazione che ho io: pur riconoscendo la teorica utilità concettuale di un Piano B per raggiungere degli obiettivi prefissati, nel nostro caso ritengo che perseguirne l’idea finisca per indebolire le motivazioni che dobbiamo avere tutti per il raggiungimento degli obiettivi fondamentali per risolvere la crisi climatica. Sappiamo che l’obiettivo fondamentale per ridurre il surriscaldamento globale è la decarbonizzazione o, meglio, l’eliminazione di tutti i gas ad effetto serra. Perché, detto per inciso, l’aumento di temperatura e i fenomeni collegati, non dipendono tanto da un maggiore o minore irraggiamento solare, quanto piuttosto dalla formazione di uno schermo a livello atmosferico composto da un mix di gas serra, prevalentemente d’origine antropica, che impedisce le capacità riflettenti (e quindi il raffreddamento) della Terra (fenomeno che viene definito dalla scienza come “albedo”).
Quindi è questo il Piano A al quale dobbiamo dedicare tutte le nostre energie, non ad altre complicate (e costose) soluzioni ingegneristiche. Per il clima non può esistere un Piano B.
Ma poniamo pure il caso che, per ipotesi, si riuscisse a realizzare quello schermo tra il Sole e la Terra che immaginano gli astrofisici citati: un ombrello spaziale; uno schermo di polvere lunare; degli specchi riflettenti, ecc., quali sarebbero le conseguenze? Avremmo risolto (forse) solo i problemi del riscaldamento della Terra, ma avremmo aggravato tutti gli altri problemi ambientali che sono anche l’origine dei problemi climatici e non solo la loro conseguenza.
Avremmo un alibi per continuare ad usare autovetture a propulsione endotermica e il carbone e il gas per la produzione industriale e l’energia domestica, aumentando così i morti per inquinamento e polveri sottili. Avremmo un alibi per continuare a distruggere gli ecosistemi, restando così i soli ad abitare una landa deserta e a bagnarci in mari di plastica. Avremmo un alibi per non preoccuparci più di prevenire il dissesto idrogeologico o una cattiva edilizia residenziale, perché gli eventi metereologici estremi diminuiranno, ma le frane e i crolli no, perché essi dipendono molto dalla deforestazione e dagli eventi sismici. Avremmo un alibi per non preoccuparci più di produrre energia da fonti rinnovabili, finché le fonti fossili non si esauriranno. E potrei andare avanti con questi esempi, perché il clima continuerà a mutare e la terra riprenderà a surriscaldarsi fino a quando non avremo necessità di schermi spaziali sempre più grandi e potenti o, forse, per i sopravvissuti, di abbandonare il nostro pianeta.
Lo dico in conclusione, con estrema umiltà, sperando di non urtare la suscettibilità di alcuno e con estremo rispetto delle professionalità altrui: ma, a mio parere, la lotta ai cambiamenti climatici deve essere soprattutto una questione di consapevolezza, educazione e cultura civica e politica, non una questione di ingegneria aerospaziale.
Giuseppe d’Ippolito