Il 15 luglio scorso è stata pronunciata la sentenza d’appello nell’ambito dei processi civili per i decessi in seguito al sisma dell’Aquila del 6 aprile 2009: la Corte d’appello de L’Aquila ha confermato il pronunciamento di primo grado del 2022, che aveva scagionato la presidenza del Consiglio dei ministri da ogni responsabilità per la morte di sette studenti in alcuni crolli avvenuti nel terremoto di circa 15 anni fa. Sotto esame la possibilità che gli studenti fossero stati rassicurati dalla Protezione civile e si sarebbero per questo convinti a rimanere all’interno dell’edificio, nonostante lo sciame sismico. I familiari delle giovani vittime, come riporta il quotidiano «Il Centro», non solo non avranno nessun risarcimento avendo assunto una «condotta incauta», ma dovranno anche pagarsi le spese legali, quasi 14 mila euro. Più in dettaglio, la Corte d’appello ha respinto i sette ricorsi delle parti civili a proposito del crollo dell’edificio in via Gabriele D’Annunzio 14, nel centro storico del capoluogo, dove si contarono tredici vittime. In sede penale, l’accusa di omicidio colposo plurimo per una condotta omissiva in relazione ai restauri e, in particolare, per non aver notato palesi criticità dello stabile, edificato nel 1961, era già caduta in via definitiva nella Corte d’appello di Perugia. Nel civile, il recente pronunciamento ha ruotato su un giovane studente di Frosinone, rimasto nell’edificio per prepararsi ad un esame del giorno dopo. In primo grado, il giudice aveva riconosciuto addirittura il cento per cento di colpa alla vittima: lo studente avrebbe saputo di vivere in un edificio poco sicuro e sarebbe comunque rimasto in casa per poter sostenere all’indomani l’esame. Un verdetto contro il quale la famiglia ha proposto appello. In secondo grado il collegio giudicante ha nuovamente respinto l’istanza, con quella di altre sei parti (tutti studenti universitari che abitavano nello stabile insieme ad altri). Secondo l’interpretazione dei giudici, i ragazzi non sarebbero morti perché rassicurati e dunque indotti a rimanere nei loro alloggi dalla Protezione civile attraverso la commissione Grandi rischi, ma per un loro errore di valutazione: una «condotta incauta». La battaglia legale si sposta ora in Cassazione.
Torna in scena il “nesso causale”, quel legame eziologico tra un dato evento, sia esso originato da un’azione umana, sia esso naturale, ed il prodursi di una determinata conseguenza rilevante per l’ordinamento giuridico. Quel legame difficile da dimostrare, ad esempio, per collegare l’inquinamento dell’aria ad un determinato decesso o a gravi patologie e ad aprire la strada ai risarcimenti in sede civile o alla condanna, in sede penale, dei responsabili. Una molteplicità di autori ha scritto sul nesso di causalità, dando spazio alle più varie interpretazioni perché nulla di definito emerge dalle fonti legislative, penali e civili, sul tema della causalità. Nell’ambito del diritto civile, in particolare, non si riscontra all’interno del codice alcun riferimento a quel nesso eziologico tra la condotta lesiva e l’evento con la sostanziale differenza che ai fini della responsabilità civile, diversamente da quanto accade nell’ambito penalistico, ciò che viene imputato al responsabile non è il fatto-illecito in sé bensì il danno, pur essendo comunque necessaria la realizzazione di un “fatto” affinché la responsabilità possa sorgere.
L’interpretazione più accettata è quella della conditio sine qua non, il danno non si sarebbe prodotto se non fosse stata possa in essere una determinata condotta colpevole. Ma è rimasta aperta, cioè, rimessa all’apprezzamento del giudice la valutazione se, al momento in cui è avvenuta l’azione (o omissione), era o meno prevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza.
La giurisprudenza (formatasi sui casi di responsabilità medica e nell’ambito di una legislazione specifica) ha affermato che il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell’uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento. In altri termini, ciò che rileva è che l’evento sia prevedibile non da parte dell’agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell’evento.
Nel contesto del terremoto dell’Aquila che si verificò il 6 aprile 2009, la Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile italiana, composta da esperti in sismologia e protezione civile, nella riunione del 31 marzo 2009, rilasciò raccomandazioni e dichiarazioni che sono state percepite da molti come rassicuranti e minimizzanti il rischio di un forte terremoto imminente. Gli esperti avevano affermato che una serie di scosse non necessariamente significava che ci sarebbe stato un grande terremoto, e che non c’erano segni evidenti di un evento sismico catastrofico imminente. Queste affermazioni avevano contribuito a creare una sensazione di sicurezza tra la popolazione, che evidentemente aveva coinvolto anche i poveri studenti.
Ma se pure si volessero considerare la complessità della comunicazione del rischio sismico e la difficoltà di prevedere con precisione i terremoti (il ché avrebbe consigliato di non pronunciarsi), quali sono le regole statistiche e/o scientifiche a cui si raccomanda a tutti il rispetto in caso di sisma? Leggo dai siti ufficiali della Protezione Civile e della Croce Rossa due regole auree “1) non precipitarti fuori, ma attendi la fine della scossa; 2) mettiti nel vano di una porta inserita in un muro portante, vicino a una parete portante o sotto una trave, oppure riparati sotto un letto o un tavolo resistente.” Esattamente quello che le vittime hanno fatto cercando riparo nella propria residenza, secondo le univoche raccomandazioni di protezione civile. Ma proprio quel fabbricato è poi crollato uccidendo e seppellendo gli studenti che erano rimasti all’interno. Avevano l’obbligo di disattendere le raccomandazioni tranquillizzanti degli esperti? Oppure avevano l’obbligo di conoscere la vulnerabilità dell’edificio, dotato di regolare abitabilità, in cui avevano trovato riparo? Dovevano ignorare i principi di cautela raccomandati dalle autorità in caso di terremoti? Credo proprio di no. Eppure, il Giudice ha deciso che quella fu una “condotta incauta”, idonea ad interrompere il “nesso causale” e riscrivendo così le regole di protezione civile in caso di eventi sismici.
Non abbiamo ancora imparato a prevenire i disastri naturali quando sono prevedibili o preventivabili, come nel caso del dissesto idrogeologico, da oggi anche le poche regole di prudenza e prevenzione che avevamo nei disastri imprevedibili come i terremoti, restano sepolte sotto le macerie de L’Aquila, insieme alla Giustizia.
Giuseppe d’Ippolito