In estate ci sono notizie che i giornali non possono mancare e che fanno parte di un “tormentone” poco allegro ma, sembra, necessario per ravvivare l’apatia dei lettori, in questa stagione di ferie e caldo torrido che ormai sembra infinito. Tra notizie di guerre (ormai sullo sfondo) e olimpiadi di Parigi (che abbiamo volutamente mancato), fanno capolino incidenti e tragedie di ogni tipo e tra queste quella della Xylella fastidiosa. Parassita in grado di annullare foreste di olivo in Puglia, dall’anno della sua comparsa (2008), è stato considerato una questione scientifica da affrontare prioritariamente ma si è presto rivelato – come in seguito avvenne anche per il Covid – un affare di scandali, denunce, contrapposizioni di partito e di aree d’interesse.
La Xylella fastidiosa è un batterio che ha un’ampia gamma di piante ospiti e risulta veicolato sulle piante da numerose specie d’insetti con apparato boccale succhiatore che, in specifico, nutrendosi di linfa xilematica, consentono al batterio di sviluppare l’infezione nei vasi linfatici della pianta. Le caratteristiche di grande variabilità ed adattabilità rendono questo patogeno molto pericoloso per le colture che, se attaccate, periscono (in genere, collassando dopo una lunga resistenza). Per le aziende pugliesi olivicole la difesa da questo patogeno è una questione vitale ed è un’emergenza reale per il patrimonio di alberi storico-monumentale: un patrimonio estremamente fragile, intaccato e in parte distrutto dal parassita negli ultimi quindici anni. Ricordo che la Puglia vanta una storia di coltivazione dell’ulivo dal periodo neolitico, 5000 a. C. e, prima della Xylella, c’erano circa 60 milioni di piante di olivo, di cui 11 milioni in provincia di Lecce per la maggior parte secolari ed una produzione che rappresenta dal 40% al 50% di quella italiana; sembra impossibile dividere l’immagine della regione da quella dell’ulivo. La lotta contro questo parassita riemerge puntualmente nelle cronache estive, senza che ci sia un effettivo cambiamento in essa, lasciando che questa tragedia del mondo vegetale diventi nel tempo fatto di cronaca e poi semplice discussione da bar per sottolineare il mutamento del paesaggio che, in periodo turistico, risulta più evidente a quanti frequentano la Puglia da anni nelle zone di Brindisi, Lecce e Taranto, fortemente colpite.
È di qualche mese fa la scoperta di due nuove varianti che attaccano vite e mandorlo e che sono state rintracciate nel territorio pugliese dell’infezione. Il pericolo, quindi, si espande, ma i rimedi consigliati sono l’uso massiccio di antiparassitari atti a fermare gli insetti, vettore del batterio, e a creare una zona quasi “asettica” nelle aree aggredite per evitare l’espansione del contagio. L’unico rimedio praticato su larga scala è quello più antico e semplice: abbattere le piante esistenti attorno a quelle ammalate per fare terra bruciata e impedire il passaggio dell’infezione tra una pianta e l’altra.
Anche questo rimedio drastico ha effetti limitati, specie quando l’infezione è ormai in fase avanzata e si vedono le piante collassare e morire. L’espansione è favorita dal tipo di attività del patogeno che, dopo il suo insediamento, non causa evidenti reazioni: le piante ammalate si distinguono dalle sane solo quando ormai è troppo tardi e bisognerebbe fare delle analisi individuali per capire come viaggia l’infezione e quali siano effettivamente i vettori nell’area.
I primi anni dell’infezione (come i primi periodi di tutte le infezioni) sono sembrati terribili e senza vie d’uscita, poi si è trovata una prima porta di salvezza, la selezione varietale, accanto a quella della difesa con mezzi chimici la cui efficacia è comunque sempre parziale. Sono state individuate alcune varietà di ulivo resistenti (se ne cercano ancora altre) tra quelle presenti nell’area e la sostituzione delle varietà sensibili con queste varietà sarebbe d’obbligo, ma questo produrrebbe effetti a catena su tutto il sistema commerciale. Buona parte del discorso delle denominazioni protette si mantiene proprio sulle varietà, tanto da portare alla produzione recente di olii mono varietali: è un vezzo commerciale che riguarda anche i vini, a mio parere, una moda come tante in passato.
La vicenda è complessivamente in uno stato di impasse e mi sembra necessario un salto di qualità per dare una svolta alla lotta contro l’infezione che, se si rivelasse una sconfitta per l’olivicoltura, sarebbe molto grave ed avverrebbe essenzialmente per colpa nostra.
Alcune considerazioni, frutto dell’esperienza maturata negli anni, mi portano ad essere pesantemente critico contro le istituzioni intervenute tardivamente e male, ma anche non pessimista per il futuro della pianta. Infatti, la sorpresa con cui è avvenuta la scoperta (tardiva) dell’infezione è il risultato di pregiudizi accumulati e mancata riflessione sugli effetti della globalizzazione e dei cambiamenti climatici. Se il luogo di origine dell’infezione (il Salento, sud della Puglia) trova unanimità di opinione, il momento in cui si è verificata, invece, risulta incerto, tra il 2008/2010 e 2013, segno di un sistema di controllo piuttosto fragile e di una sottovalutazione complessiva della gravità del problema (almeno nelle fasi iniziali).
Ciò avviene perché persiste nella mentalità corrente la sottovalutazione del salto di specie: come per la mucca pazza o come per il Covid, le specie – ritenute a torto “inferiori” – si adattano e non deve meravigliare la facilità con cui si verifica il passaggio, con il moltiplicarsi delle transazioni commerciali e con la modifica degli habitat. Un batterio così “onnivoro” doveva essere preso seriamente in considerazione, tanto è vero che il passaggio sull’olivo è avvenuto attraverso l’importazione di piante di pesco e di caffè in Francia. Non si possono chiudere le frontiere, prima o poi il batterio sarebbe comunque arrivato, ma essere completamente impreparati è altra cosa.
Questo improvviso collasso di una coltivazione è già avvenuto in passato causando disastri sociali (l’attacco di Doriphora alla coltivazione di patate in Irlanda e della Phylloxera alla vite in Europa nel corso del XIX secolo) ma nel corso del tempo sono state trovate delle soluzioni agronomiche adeguate: né la patata, né la vite sono scomparse dal panorama europeo. Sino a pochi anni fa nessuno dei parassiti che attaccavano l’ulivo poteva considerarsi in grado di distruggere la pianta, tanto era profondo e antico l’insediamento di questa specie, da poter produrre nei millenni capacità di resistenza e di equilibrio con le altre specie viventi presenti nell’ecosistema. Oggi questo equilibrio è stato rotto ma dobbiamo considerare che sembra esistere nella natura un equilibrio fino al livello di specie, attraverso onde di sostituzione che si propagano per tutto il mondo. Sta a noi cercare di seguire questi processi di equilibrio e dis-equilibrio e cercare di salvaguardare le nostre attività sociali ed economiche, sapendo che esse dovranno modularsi, cercando soluzioni che salvaguardino la specie e il suo ruolo nell’ecosistema e nell’alimentazione.
Abbiamo gli strumenti a disposizione per avviare percorsi di conoscenza e di tutela ambientale, agricola e alimentare ed i fondi stanziati per il PNRR possono essere utilizzati a questo scopo. So che nel Salento si punta ad ottenere quel salto qualitativo nella ricerca e nell’indagine sul territorio, tentando strade nuove ed “eretiche”. I risultati di questo impegno possono essere il segno della fine delle lottizzazioni che ci hanno visti tristemente protagonisti durante il periodo del COVID.
Ricordo che vent’anni fa partecipai ad una ricerca finanziata dalla UE sulla tracciabilità del DNA dell’olivo: lo scopo era riuscire ad ottenere una certificazione certa partendo dal prodotto finale in bottiglia, senza il lungo percorso burocratico (e i suoi costi) dal campo allo scaffale di vendita. Alla fine non se ne fece niente soprattutto per i grossi interessi di filiera, ma risultati ci furono e si effettuò una mappatura del DNA della coltura. Forse questa mappatura varietale, o il metodo impiegato per farla, potrebbero tornare utili in questo momento.
Questo piccolo esempio mi serve per ricordare che è indispensabile realizzare il coordinamento in tutti i diversi settori di ricerca e produttivi cioè, fare quello che non si è riusciti a fare durante il COVID.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti