L’agricoltura sociale è un modello che integra pratiche agricole tradizionali con servizi sociali, promuovendo inclusione e benessere per persone in difficoltà. Questo tipo di agricoltura combina la produzione agricola con attività terapeutiche, educative o di inserimento lavorativo per persone con disabilità, anziani, minori, o chi si trova in situazioni di svantaggio. L’agricoltura sociale, come concetto e pratica, ha radici storiche che risalgono a diversi decenni fa, ma ha cominciato a svilupparsi in modo strutturato e a essere riconosciuta come metodo distintivo tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI secolo. Le prime forme di agricoltura sociale sono emerse in Europa, in particolare nei Paesi Bassi, in Germania e in Italia, tra gli anni ‘70 e ‘80. Questi paesi iniziarono a sviluppare progetti di inclusione sociale per persone con disabilità e altri gruppi vulnerabili, utilizzando le attività agricole come strumento terapeutico e riabilitativo. Durante gli anni ‘90, l’agricoltura sociale iniziò a guadagnare un riconoscimento formale, soprattutto in Italia, grazie a iniziative di cooperative sociali e imprese agricole che integravano il lavoro con finalità terapeutiche, educative e di inclusione lavorativa. In questo periodo, furono istituiti i primi regolamenti e linee guida che definivano chiaramente i contorni del settore. Negli anni 2000, l’agricoltura sociale ricevette maggiore attenzione a livello politico e legislativo, con il riconoscimento ufficiale in diversi paesi europei. In Italia, ad esempio, la legge 141/2015 ha definito e regolamentato l’agricoltura sociale, consolidando la pratica come un modello sostenibile e inclusivo.

 

Uno degli aspetti negativi, che impediscono un’efficace lotta contro il cambiamento climatico è il mancato coordinamento e l’assenza di una strategia comune tra quanti, in vario modo e nei diversi settori, svolgono azioni di risanamento. Non è un problema solo italiano, anche se qui risulta più accentuato che altrove, ma è un aspetto di questa fase di transizione. E non si tratta di dettagli da mettere a punto, ma di ripensare il modo in cui si concepiscono le attività umane.
L’assenza di un filo conduttore delle diverse politiche di riconversione ambientale lo si può notare poiché difficilmente le attività produttive si combinano tra loro con effetti mitigatori del clima. In particolare, i meccanismi che hanno portato i servizi a prevalere economicamente sulle produzioni primarie e secondarie, non hanno disinquinano il pianeta e non hanno migliorato le condizioni economiche della massa della popolazione. Questa è una delle cause del permanere di stili di vita “tradizionali”, cioè meno costosi e di facile utilizzo. Così è aumentato il distacco tra redditi alti (per pochi) e gli altri redditi, in genere diminuiti. Soprattutto la prevenzione e i servizi per la salute sono diventati costosi e spesso inefficienti, come possono constatare i cittadini che, dopo la pandemia, avrebbero avuto bisogno di usufruirne.

Piantare alberi come parte del processo di riforestazione

Anche per i servizi legati al sistema produttivo, come nel campo agricolo – ad esempio – gli agriturismi, il risultato non è stato entusiasmante. Le attività agrituristiche, invece di allargare le prospettive e trasformare l’azienda agricola in una unità più complessa, sono diventate un mero strumento economico in concorrenza nel settore turistico. Le strutture che non hanno fatto il salto qualitativo diventando dei “resort”,  sono state utilizzate come alberghi a buon mercato per un turismo diffuso e oggi sono state marginalizzate in questa attività dalla diffusione dei Bed & Breakfast (B&B) nelle città.  Il problema è che, se tutto diventa mercato, si perde il senso sociale di alcune azioni necessarie, come quelle delle attività di piacere, o di mantenimento della salute o della prevenzione per malattie e rischi di vario genere.

Un’attività che da tempo si oppone a questa prospettiva e che esiste in modo quasi nascosto è quella delle fattorie sociali. Oggi esplicitamente utilizzate per sostenere le persone con disabilità e le loro famiglie, sono una sorta di fiume sotterraneo che si oppone alla trasformazione in merce di qualunque azione. Nate in modo discreto, sono progressivamente diventate un sistema di trattamento di diverse malattie e disturbi a cui le famiglie possono fare riferimento e senza le quali la vita diventerebbe quasi impossibile per esse. A  mio avviso, è possibile che tale attività si allarghi ulteriormente come strumento di sostegno e prevenzione di altre malattie, nate come malattie individuali (obesità e disturbi respiratori e cardiovascolari), ma diventate sociali per la loro diffusione ed i loro effetti sulla società.
Se si cerca la definizione di fattoria sociale si trovano aspetti dettagliati sul valore di essa e sulla valenza multipla che assume rispetto alle funzioni svolte.

Uomini che raccolgono uva sul campoFattoria sociale è una azienda agricola nella quale spazi e/o coltivazioni appositamente costruiti vengono dedicati alle visite e ai soggiorni di gruppi misti di operatori e persone svantaggiate che con cadenza più o meno regolare frequentano l’azienda per parlare, scrivere, riflettere e soprattutto per prendersi cura delle piante, aprendo così un canale privilegiato di comunicazione con la terra, i vegetali e le mille necessità che nascono al momento. L’obiettivo principale dell’esperienza in fattoria, pertanto, è il miglioramento della persona e non quello della pianta, ma poiché è altrettanto vero che il supporto tecnico al conseguimento del risultato finale si pone come contributo irrinunciabile al raggiungimento dello scopo, centrale diventa il ruolo dell’agricoltore all’interno della fattoria sociale stessa. Gli addetti ai lavori sostengono che l’esperienza in fattoria può assumere una valenza terapeutica nel momento in cui la coltivazione delle piante contribuisce al ripristino di equilibri individuali e sociali, spesso rotti da condizioni di disagio o di svantaggio. Seminare, coltivare e veder poi i frutti del proprio lavoro aiuta a responsabilizzarsi, a riacquistare fiducia nelle proprie capacità, riconquistando il concetto di temporalità che spesso, nel mondo del disabile si ferma inesorabilmente al momento dell’handicap, dell’incidente o delle esperienze trascorse.

La fattoria didattica è un vero e proprio laboratorio d’insegnamento all’aperto. (definizione inserita nella legislazione della Regione Veneto)
Questa definizione, permette di capire come questo genere di aziende nate non per trarre profitto dalla produzione, ma per offrire servizi, abbia confini labili e sia assimilabile ad altri servizi e tipologie di fattorie, come la fattoria didattica, nata per consentire ai giovanissimi di avere un contatto con le attività primarie e piante o animali presenti in esse.  In generale si parla in questi casi di agricoltura sociale che “ha l’obiettivo di integrare il lavoro agricolo, la produzione di prodotti alimentari e di servizi tradizionali con la promozione della salute e dell’inserimento sociale attraverso azioni di riabilitazione, cura, educazione e formazione, a vantaggio di soggetti vulnerabili.”  (Definizione presente nella legislazione della Regione Puglia).

Le fattorie sociali, intervenendo sulle disabilità e incidendo sulla patologia che le ha causate attraverso l’attività agricola, si muovono su quel piano di intersettorialità, di cui si parla molto ma su cui si ha difficoltà ad intervenire. Spesso tali fattorie sono inserite o limitrofe ad un contesto urbano, incidendo positivamente sugli aspetti inquinanti. Dal 2005 è stata costituita una Rete delle Fattorie Sociali con una sua pagina Facebook, interessante e ricca di spunti per quanti vogliano misurarsi con le trasformazioni In corso e sul cosa fare per superarle.


Perché le fattorie sociali sono uno strumento della lotta contro il cambiamento climatico? Perché, non avendo come principale fine il profitto, sono in grado di offrire ai viventi in esse operanti (uomini, animali, piante) una possibilità diversa di azione e di adattamento. Gli animali e le piante esistenti in esse hanno un ruolo di comunicazione e utilizzo che supera la visione commerciale e permette agli individui di ridisegnare il loro essere. Paradossalmente, possono essere esempi di resilienza anche sociale per gli effetti che producono e, non occorre dimenticare, la loro presenza è un piccolo polmone biologico diffuso sul territorio, oltre ovviamente alla funzione  sociale che esse svolgono.

Perché questa massa di aziende non ha visto una diffusione capillare ed un collegamento con quanti (ambientalisti, consumatori, attivisti sociali) amerebbero delle attività sostenibili? Qui vi è una colpa collettiva che vede in tutti noi l’incapacità a superare le divisioni culturali, quelle scientifiche e quelle produttive. La creatività nel produrre benessere potrebbe essere a vantaggio anche delle persone cosiddette “sane”, che spesso sono la causa del disagio di molti altri ritenuti casi patologici.
Spesso per malattie di lunga durata o di lenta guarigione ci si trova davanti dinanzi a muri istituzionali ed economici: la diffusione di tali fattorie aiuterebbe a superare gli uni e gli altri a mio avviso. Come si può notare, esistono presupposti comuni, al di là delle divergenze politiche, che possono permettere a questo tipo di attività di supportare le famiglie, di diventare uno strumento di cambiamento e incidere positivamente sul malessere che avvolge la nostra realtà, in cui forse tutti avremmo bisogno di una fattoria sociale in cui ridisegnare il futuro.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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