Gli alimenti biologici non fanno uso di input chimici, mantengono la fertilità dei suoli, sono più rispettosi del benessere animale. Il metodo dell’agricoltura biologica tutela l’ambiente, gli ecosistemi, la biodiversità, esaltando un modello culturale e di sviluppo che valorizza le risorse naturali evitando lo sfruttamento eccessivo del suolo, dell’acqua e dell’aria. Si garantisce una produzione alimentare sostenibile e la sicurezza alimentare secondo la strategia UE Farm to Fork. Nella produzione di alimenti biologici si vivono però alcune contraddizioni: per esempio sono ammessi e consentiti taluni additivi alimentari anche se non si può ignorare che diversi additivi provochino ipersensibilità nei giovani consumatori -anche se i dati sulle specifiche e molteplici cause delle allergie non sono certi-  e mascherano le caratteristiche intrinseche del prodotto alimentare connesse alle qualità organolettiche (consistenza, colore, aroma, palatabilità, ecc.). E questo avviene in un contesto dove continuano a peggiorare le condizioni di salute della popolazione (sovrappeso, obesità, ipertensione e patologie cardiovascolari, diabete e tumori). Per questo l’evoluzione del bio deve indirizzarsi, se non per legge ma almeno su base volontaria, su una produzione che escluda la presenza di additivi, così come raccomanda la prassi di riferimento Uni/Acu 57:2019.

 

Spesso le novità e i cambiamenti si manifestano con avvenimenti ritenuti minori e con fatti che hanno l’aspetto della routine amministrativa. A mio avviso, quello che è avvenuto nel settore del biologico all’inizio di agosto, con la creazione di ConfagriBio, l’associazione di Confagricoltura dedicata all’agricoltura biologica, è uno di questi avvenimenti segnalatori del cambiamento in corso. Lo dico con una certa cognizione di causa, poiché seguo il settore delle produzioni biologiche dagli anni Settanta e faccio parte di una associazione (ACU) che sin dalla sua nascita, quando si chiamava Agrisalus, ha aderito all’IFOAM, la Federazione internazionale dei movimenti per l’agricoltura biologica.
Credo che l’agricoltura ed il settore delle produzioni biologiche in particolare abbiano bisogno di segnali innovatori; che a darli siano le imprese che hanno avuto un ruolo, nel bene e nel male, nell’introduzione delle innovazioni in campo agricolo, è la conferma del peso della decisione. Infatti, la Confagricoltura, associazione che ha fatto della “cultura d’impresa” lo strumento guida per l’attività produttiva si è mossa in prima persona per creare una sezione dedicata al biologico ed è stato nominato presidente della neonata associazione Paolo Parisini, imprenditore agricolo che vanta nel suo curriculum la presidenza della Federazione Nazionale  Prodotto Bio.

Per capire il senso che ha nel panorama agricolo e nella storia del settore una nuova associazione che coinvolge in prima persona imprese cresciute nella logica del mercato, bisogna ricordarsi del passato, di quando  l’ecologismo e le sue aree limitrofe (tra cui il biologico) sembravano solo un intralcio all’avanzata del progresso industriale. Vengo da una regione del sud Italia – la Puglia – che ha vissuto tutto ciò sulla propria pelle, quando a Taranto fu realizzato il più grande centro siderurgico d’Europa, inaugurato nel novembre del 1964, dopo che la riforma agraria e il Piano Verde del governo italiano avevano messo in produzione una buona parte dei terreni bonificati nella stessa area (l’arco Jonico-tarantino), che persero la disponibilità idrica e la potenziale importanza economica a vantaggio del siderurgico. Oggi alla guida di un settore di imprese biologiche c’è qualcuno che viene dalla regione guida delle produzioni agroalimentari che ha vissuto un disastro ecologico e produttivo di egual misura con l’alluvione della Romagna, conseguenza dello scarso interesse per il territorio di gran parte delle istituzioni, a cui è seguito il disastro economico per le “inadeguate” politiche economiche governative per il ripristino delle attività nelle aree colpite. L’Associazione può rappresentare, come dice il comunicato stampa, “la valorizzazione e la diffusione dell’agricoltura, della zootecnia e dell’acquacoltura biologica e delle pratiche agricole correlate, nonché la promozione della ricerca, della sperimentazione e del trasferimento tecnologico. Con una specifica attenzione alla diffusione della produzione biologica nelle aree interne e nelle aree protette, anche al fine di supportare lo sviluppo economico, sociale e ambientale delle suddette aree”. Sono parole che potrebbero sapere di retorica, se non trovassero adeguato riscontro nell’attività pratica. Su questo si misurerà il valore di questa associazione e si verificherà se riuscirà a dare, come spero, una scossa al settore biologico. Adagiatosi su di una rendita di posizione data dall’immagine, il settore bio l’ha vista sgretolarsi  nel tempo sotto i colpi dell’inflazione e delle regole amministrative (italiane in particolare) che sembrano fatte per impedire al settore di decollare. Perché il biologico ha potenzialità in ogni settore produttivo: dall’alimentare alla salute, all’equilibrio ecologico, al risanamento ambientale, ma sembra chiuso in una gabbia da cui gli è impedito di uscire. Questa gabbia viene identificata con gli aspetti economici (il vantaggio degli aiuti che risulta sostanziale per permettere alle produzioni convenzionali di reggere la concorrenza), con gli aspetti amministrativi che penalizzano soprattutto la diffusione di una certificazione trasparente e leggibile per il consumatore e con i cambiamenti climatici.

Donna che giudica un cestino pieno delle verdure differentiNon si andrà molto lontano se nella nuova associazione ci si limiterà a ripetere le lamentazioni che altre associazioni fanno da anni e che hanno portato i consumatori a ritenerle ingiustificate, a fronte di una situazione generale di sofferenza della popolazione e di calo del reddito. Se si affronteranno invece gli aspetti strutturali che hanno impedito all’agricoltura biologica di essere il motore del rinnovamento del sistema produttivo, si aprirà un’altra strada. Mi sembra paradossale che una tipologia come il biologico, che utilizza meno input energetici, che spunta prezzi migliori ed ha una qualità intrinseca dei prodotti migliore non trovi sostegno tra amministratori ed imprese e non possa diventare un banco di prova per la creazione di un diverso sistema impresa sul territorio. Perché dare meno concimi chimici e meno antiparassitari fa bene anche al palato oltre che all’ambiente e prolunga la conservazione di una larga fetta di prodotti, soprattutto se su tali produzioni si innestano economie circolari, oggi ancora solo negli slogan. Se analizziamo le basi degli investimenti, gli orientamenti e la diversificazione necessaria al cambiamento climatico, troviamo che nelle imprese biologiche vi è una migliore predisposizione al cambiamento ed una maggiore resilienza. Non vedo perché il PNRR non abbia tenuto conto di questo e che i Piani per la coesione non trovino delle strade operative per utilizzare questi assist che il biologico offre. Penso che una nuova associazione, nel cuore del sistema delle imprese, possa essere in grado di fare fruttare queste possibilità.

In ogni settore economico c’è sempre una parte che anticipa il nuovo in arrivo ed essa è diversa nei differenti periodi. Ad esempio, negli anni Novanta, quando la concorrenza ed il mercato sembravano imporsi, in agricoltura il sistema dei marchi locali (codificato in sede UE con il Regolamento CEE 2081/92 per i DOP e gli IGP – esclusi i vini e le bevande alcoliche) diventa un sistema progressivamente sempre più importante, in grado di garantire al consumatore l’immagine del prodotto e la sua uniformità e permettere ai produttori locali di affrontare i mercati comunitari e globali. La spinta evolutiva di questo settore si è attenuata con la trasformazione dei mercati globali. La vendita dei prodotti locali è diventata sempre più legata ai sistemi di marketing e di immagine e sempre meno alla effettiva qualità degli stessi prodotti che, a sua volta, diventa sempre più costosa da ottenere. Potremmo dire che il mercato nel tempo distrugge sé stesso se la logica resta unicamente quella del profitto e questa è una delle contraddizioni che ha prodotto la società industriale nel momento in cui ha sostituito quella medioevale. C’è una ragione per cui parlo di questo genere di prodotti alimentari e di due epoche diverse, perché i periodi di passaggio avvengono secondo alcune caratteristiche che in genere si ripetono dopo secoli e si dovrebbe essere in grado di cogliere. Oggi l’agricoltura convenzionale è giunta in una situazione di stallo, sia per la riduzione delle produzioni data dall’intensificazione degli input a cui non corrisponde più un aumento produttivo, sia per l’incapacità di rispondere in modo flessibile ai cambiamenti climatici. Il sistema delle DOP IGP era interno a questo tipo di agricoltura e non a caso le produzioni biologiche, regolamentate addirittura prima – regolamento (CEE) 2092/91–  sono state sostenute solo parzialmente e sono state ritenute di minore interesse produttivo. Il biologico può manifestare la sua potenzialità in un sistema d’impresa che si muove a vantaggio di economie circolari, che privilegia la qualità alla quantità, che prevede la ricostruzione del sapere in agricoltura con l’uso dell’agroecologia. Aspettiamo le mosse di questa nuova associazione: “se son rose, fioriranno”.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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