La peste suina è una malattia virale altamente contagiosa che colpisce i suini domestici e selvatici. Esistono due forme principali di questa malattia: la Peste Suina Classica (PSC) e la Peste Suina Africana (PSA). La Peste Suina Africana, PSA, è stata scoperta per la prima volta in Italia negli anni ’70, con il primo focolaio rilevato in Sardegna nel 1978. Da allora, la malattia è stata endemica nell’isola per diversi decenni, con focolai sporadici che hanno continuato a verificarsi nonostante gli sforzi di contenimento e eradicazione. Nel 2022, la PSA è stata nuovamente rilevata nella parte continentale dell’Italia, in alcune regioni del Piemonte e della Liguria, colpendo suini selvatici e sollevando preoccupazioni per una possibile diffusione ad altre aree del Paese. Questa scoperta ha portato a nuove misure di biosicurezza per contenere il virus e prevenire ulteriori focolai. La peste suina, in entrambe le sue forme, non è pericolosa per l’uomo, ma ha un impatto devastante sull’allevamento suino e sull’economia del settore agricolo, in quanto richiede l’abbattimento degli animali infetti e delle zone a rischio. La PSA è particolarmente preoccupante per i Paesi dell’Unione Europea e altre aree del mondo dove si sono verificati focolai, causando danni economici significativi agli allevamenti e mettendo a rischio la sicurezza alimentare.
In questa estate ci stiamo sempre più assuefacendo alla morte e le guerre ed i naufragi di decine di poveretti nel mare fanno meno notizia del naufragio dello yacht dell’ultramiliardario o degli amori di qualche ministro. In questo clima è facile che una seria preoccupazione medico – veterinaria diventi un argomento da bar e che i provvedimenti da prendere siano visti come l’estrema difesa dell’uomo civilizzato contro la natura selvaggia.
Così i giornali parlano in toni apocalittici della “peste suina”, una malattia trattata come un nuovo flagello che effettivamente potrebbe mietere molte vittime tra i suini (non si tratta di una zoonosi, quindi non è una malattia trasmissibile all’uomo) e che, non essendoci ancora una cura, ha come unico rimedio la “terra bruciata”, cioè l’uccisione dei suini venuti in contatto con quello ammalato. Naturalmente non ci si preoccupa della salute degli animali (i quali poveretti sarebbero comunque uccisi) se non in funzione del reddito e delle conseguenze economiche per le industrie di settore che si avvierebbero al tracollo. Si punta all’effetto notizia dato dal nome “peste” e dal fatto che, in specifico si tratti di quella chiamata “africana”, altro vocabolo che richiama idee di sospetto e invasione.
Servono alcune precisazioni: la cosiddetta “peste suina africana” detta ASF (African Swine Fever) malattia infettiva altamente contagiosa che coinvolge suini, cinghiali e altri suidi selvatici è causata da un virus unico rappresentante della famiglia Asfarviridae. Essa è facilmente assimilabile con un altro virus che colpisce sempre i suini ed è egualmente molto infettivo, che è detto “peste suina classica” (un Flavivirus correlato ad altri virus che affliggono bovini e ovini). Che si chiamino entrambi peste suina non è un caso, poiché i sintomi sono sostanzialmente simili e le due malattie si distinguono attraverso la diagnosi di laboratorio con test ELISA, come avviene per molti dell’uomo.
Gli atteggiamenti che le autorità e le persone assumono rispetto a questa epizoozia (come si chiama una epidemia che si diffonde tra gli altri animali non umani) evocano situazioni descritte nei grandi romanzi come “La peste” di Camus o “I promessi sposi” di Manzoni.
Non a caso ho citato questi autori che ben descrivono gli effetti sociali e comportamentali di una peste, cioè di una malattia di cui non si controlla la diffusione e che sembra non avere antidoti o cure. Ho detto sembra, perché la prima cura di cui nessuno parla per questo genere di malattie è la prevenzione (avere allevamenti piccoli e non concentrati in aree densamente popolate) e la modifica della struttura sociale in cui si insedia la malattia (catene di produzione industriale), perché questi aspetti ci dicono molto su come poter evitare le situazioni pericolose ed i possibili effetti collaterali o secondari. Questi ultimi, in alcuni casi, si sono mostrati molto più nocivi della malattia stessa ed hanno reso vani i rimedi feroci attuati, cioè l’uccisione di centinaia di migliaia di suini (o bovini per altre malattie virali) presuntamente contagiati.
Anche se se ne parla come di un nuovo virus in arrivo, le pesti suine (entrambe) sono di antica conoscenza e girano il mondo ufficialmente da un centinaio di anni, riemergendo ciclicamente nelle varie zone del globo e causando danni sostanziali alle strutture economiche e di allevamento forzato che vi si erano impiantate. L’uomo occidentale ha prodotto una situazione di estrema precarietà delle specie viventi e di scarsa biodiversità, esportando con il suo modo di vivere le specie a lui utili e familiari a scapito di quelle indigene dei diversi luoghi. Ma è stato soprattutto con lo sviluppo del commercio internazionale e dei mercati globali, che gli effetti negativi sono esplosi in modo eclatante dopo che la crescita degli allevamenti industriali aveva creato l’illusione dell’opulenza alimentare.
Quando a Cuba scoppiò un’epidemia di peste suina nel 1971 che si concluse con l’uccisione di 500.000 maiali e che fu etichettata dalla FAO come “il più allarmante evento di quest’anno”, per la sua diffusione nell’isola si ipotizzò – non smentita – un’azione di sabotaggio del terrorismo anticastrista tacitamente sostenuto dalla CIA, con lo scopo di destabilizzare l’economia cubana e incoraggiare l’opposizione. Senza andare al complotto, la peste suina africana è comparsa in Cina nel 2018 e, diffusasi rapidamente nel paese, ha condizionato pesantemente sia il mercato globale di questo alimento (la Cina importò quote enormi di carne suina), sia il Capodanno cinese di alcuni mesi dopo. Il tradizionale consumo di piatti a base di carne di maiale in quell’occasione fu spesso sostituito dal consumo di carne dei più diversi animali e della più varia provenienza, tenendo conto anche dell’aumento dei prezzi della carne suina. Si può ritenere che tra le concause del COVID esista anche quella dello sviluppo nel periodo che precedette l’epidemia, di mercati informali, di macellazioni fuori norma, dell’abbandono dei sistemi di precauzione necessari. Quindi alla mancata applicazione di alcune regole di prevenzione e di controllo si sono unite le abitudini alimentari difficili da sradicare e la creazione dei sistemi di filiera raccolti nel sistema globale di mercato che ha favorito l’instabilità dei prezzi ed il susseguirsi di crisi di produzione.
Nella situazione creatasi in Europa, in specifico in Italia, ci sono diverse cause che contribuiscono alla diffusione del virus, principalmente legate all’inerzia nell’applicazione delle regole di precauzione, da quelle del benessere degli animali sino a quelle di controllo del virus. Ma contribuiscono anche le azioni intraprese per la lotta alla diffusione dei cinghiali sul territorio, animali difficilmente controllabili nei movimenti che potrebbero transitare nei territori infettati. Se la principale causa della diffusione dei cinghiali è attribuibile ai cambiamenti climatici che favoriscono la prolificità delle femmine e riducono la mortalità invernale, un contributo notevole è dato dai cacciatori con l’immissione sul territorio di nuovi individui e poi con il sistema attuale di “caccia selvaggia al cinghiale” che le autorità locali favoriscono. Quanti dei cinghiali uccisi e macellati negli improvvisati safari nostrani sono stati sottoposti a controlli sanitari prima di essere utilizzati per il consumo? Incompetenza, dolo, scarsi controlli sono elementi chiave per la diffusione del virus, tutti derivanti da una unica motivazione: quella edonistico-economica. In una società meno individualista le malattie sono più facili da controllare.
Ora, se non è possibile prevedere lo sviluppo dei virus e la loro pericolosità, è possibile sviluppare delle strategie di prevenzione e, soprattutto, è possibile mettere in dubbio l’utilità e l’ineluttabilità di attività come la caccia e dei sistemi di allevamento industriali che si rivelano sempre più incapaci di proteggere gli animali che accolgono.
Personalmente sono per un’alimentazione varia e vegetariana che possa permettere agli animali tutti di vivere la loro vita, anche a quelli che noi oggi alleviamo per uccidere e mangiarli (in piccola parte, poiché gli scarti sono in enorme quantità). Ma è evidente che una simile idea andrebbe applicata con criterio e largo consenso, poiché la distruzione di un colosso come l’industria mondiale della carne potrebbe travolgerci tutti. Questo è il pericolo che si paventa dietro la peste suina: la fine di un sistema che non regge all’impatto con gli effetti dei mercati e del cambiamento climatico e che non è più in grado di autoriformarsi.
Vi è anche un dettaglio non da poco: a che serve allevare tra sofferenze, antibiotici e integratori migliaia di animali per poi ucciderli se oggi è possibile coltivare in sicurezza la carne di cui riteniamo avere bisogno senza stravolgere l’ambiente? Questo può avvenire attraverso l’industria definita con un dispregiativo della “carne sintetica” che si mostra meno energivora e meno inquinante e in questi casi più sicura dell’attuale filiera industriale. Questo enorme sistema globale di allevamento e morte, che coinvolge nella sua economia milioni di persone, può crollare dinanzi ad un virus: a questo colosso con i piedi di argilla sarebbe necessario limitare le capacità distruttive per il bene dell’uomo, degli animali e della natura.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti