Il G7 dell’Agricoltura del 2024 si è svolto dal 26 al 28 settembre a Siracusa, in Sicilia, sotto la presidenza italiana. Uno dei principali temi in discussione è stato il rafforzamento del concetto di “sovranità alimentare”, introdotto per la prima volta in questo contesto. I ministri hanno discusso dell’importanza di garantire sistemi alimentari equi, resilienti e sostenibili, promuovendo una produzione agricola che sia in grado di offrire cibo sicuro, nutriente e accessibile a tutti. Si è anche sottolineato il bisogno di ridurre sprechi alimentari e tutelare le diversità culturali e dietetiche. Ma, come spesso accade nei grandi summit internazionali, il G7 dell’Agricoltura del 2024 si è concluso con dichiarazioni di intenti e impegni generali, senza però produrre risultati immediatamente concreti. I temi affrontati, come la sostenibilità dei sistemi alimentari, la sovranità alimentare e il ruolo della tecnologia per affrontare i cambiamenti climatici, sono stati discussi, ma non sono stati annunciati piani d’azione dettagliati o vincolanti. Molte delle conclusioni del G7, come l’impegno a sostenere pratiche agricole più sostenibili e la riduzione degli sprechi alimentari, sono principi importanti, ma mancano di scadenze precise o di meccanismi obbligatori per garantirne l’attuazione. Gli obiettivi fissati sono di lungo termine e richiedono la cooperazione tra i Paesi membri e le istituzioni internazionali per essere concretizzati. Quindi, si potrebbe dire che i risultati del vertice sono rimasti per lo più a livello di dichiarazioni generali, senza tradursi immediatamente in azioni tangibili.
Credo che, quando un giorno si parlerà di questo periodo di storia dell’umanità, si parlerà di un periodo in cui vi era il dominio effimero delle immagini e de “l’apparire” dinanzi alla realtà dei fatti. Quando ritornerà a prevalere la realtà sull’apparenza, si dirà di un periodo in cui l’ipocrisia prevaleva nelle relazioni internazionali, tanto da coprire nei documenti sottoscritti le cause e gli effetti dell’agire dei governi dell’epoca.
Questa premessa era necessaria per inquadrare i risultati del G7 dell’agricoltura, uno dei tanti che annualmente segnano le relazioni tra gli Stati più potenti del pianeta. Si è svolto in un clima di incertezza sia in relazione alla situazione geopolitica, sia in relazione a quella specifica dell’agricoltura. Per dirla chiaramente, i partecipanti al meeting erano espressione di governi dimissionari, dimessi o di neoformazione per la maggior parte degli Stati (basti pensare alle recenti elezioni in Francia o alle prossime negli USA) e non erano nelle condizioni di assumere alcun impegno concreto. Poiché questi incontri si svolgono annualmente, quello italiano sarebbe stata l’occasione per svolgere un lavoro di corridoio, in grado di sviluppare la conoscenza dei neo partecipanti e di chiudere con qualche possibile impegno concreto con gli altri. Invece si è preferito trasformarlo in un Circo Barnum, unendolo ad un altro evento fieristico, come hanno sottolineato molti organi di stampa, con un effetto promozionale che negli intenti degli Organizzatori avrebbe esaltato l’immagine del made in Italy.
Personalmente ho seri dubbi che questo possa portare a futuri risultati, soprattutto perché le condizioni climatiche e quelle di mercato del settore agricolo non sono tra le più propizie e si uniscono a quelle geopolitiche che hanno portato ad alcune crisi di mercato ed al peggioramento delle condizioni alimentari in alcune aree del pianeta.
Tutto ciò perché il mondo prosegue nella guerra globale “a pezzi”, rafforzando la pratica corrente di scatenare gli attacchi non contro eserciti avversari, ma contro la popolazione situata in campo avverso, seminando il terrore. In essi gli sfortunati abitanti sono colpevoli di viverci e spesso sono uccisi con la giustificazione che “il nemico li utilizza come scudi umani”. In questa lenta ma inesorabile escalation si avviano ulteriori pratiche guerriere detestabili, usate in passato, come l’assedio e la presa per fame del nemico – oggi definite con un eufemismo “crisi umanitarie”. Mentre avviene tutto questo, i Paesi che compongono il G7, discutendo di agricoltura, si assolvono da responsabilità dirette e cercano di trovare la “quadratura del cerchio” tra aumento della produttività (quindi anche dei consumi energetici) da un lato e riduzione dell’inquinamento e lotta al cambiamento climatico dall’altro.
Il comunicato emesso alla fine dei lavori non dice niente di nuovo rispetto a quanto tutte le grandi istituzioni internazionali (ONU, FAO, OCSE) hanno detto da molti anni in merito alla relazione tra fame / tutela dell’ambiente / sviluppo socioeconomico. Il G7 arriva buon ultimo ad ammettere questa relazione, in base alla quale sembra evidente che non sarà possibile eliminare la fame nel mondo se questo non avverrà con una parallela tutela ambientale e sviluppo socioeconomico. Ma già da un decennio è attiva l’Agenda 2030 che poneva questa relazione alla base dei suoi obiettivi, sottoscritti da tutti i Paesi dell’ONU, ma tutti gli Stati sono indietro nella loro realizzazione e si rinvieranno ancora i risultati che si pensava fosse possibile raggiungere nel 2030. Non c’è un segno di questo fallimento globale nel comunicato di chiusura del G7. Il tono declamatorio del comunicato nasconde in realtà una pochezza d’intervento e nei commenti della maggior parte della stampa italiana si esalta la natura del documento stesso, un vero e proprio manifesto dell’agricoltura che vogliamo: redditizia, resiliente, equa e sostenibile. Ma non si rileva ciò che la crudezza dei dati dimostra: dal 1970 ad oggi, se una parte del mondo è stata sottratta alla fame, lo è stato non per l’intervento delle grandi potenze e delle istituzioni economiche da loro guidate, ma per lo sforzo che la Cina ha condotto al proprio interno per portare il Paese ad essere quello che oggi rappresenta. Per il resto gli aiuti forniti ai Paesi in difficoltà sono stati vanificati dai cambiamenti climatici e dalle guerre. Non è dato sapere quanto la trasformazione industriale delle agricolture dei paesi cosiddetti “poveri” sia stata vettore di miglioramento o, forse, di una ulteriore debolezza strutturale dinanzi alle modifiche geopolitiche. Ma un minimo di autocritica, sotto forma di modifica dei metodi e del percorso sino ad ora avuto nel relazionarsi con gli altri Paesi (soprattutto in Africa), sarebbe stato doveroso, non fosse altro che per ridurre la distanza politica oggi esistente tra le sette potenze e il resto del mondo. Ad esempio, tutte le mozioni presentate all’ONU sui conflitti che coinvolgono la Russia e Israele, votate dai sette grandi e volte a condannare aggressioni e terrorismo, hanno visto il voto costantemente contrario di 35 Stati africani; un segno del dissenso verso le politiche sviluppate dai Paesi “grandi” che, purtroppo, tende ad aumentare.
Come si pensa di coinvolgere tutti i Paesi africani in stabili relazioni economiche se essi hanno visto proprio nei due conflitti – in Russia e Medioriente – la causa prima dell’aumento del prezzo del petrolio, aumento a sua volta causa principale di quello dei prodotti alimentari? E come s’intende aumentare la capacità di autosufficienza alimentare se i cambiamenti climatici costringono ad abbandonare molti territori nei diversi continenti e lo sviluppo economico risulta dipendente dal meccanismo delle esportazioni? Tanti Paesi cosiddetti poveri hanno come unici prodotti da commercializzare i prodotti agricoli e la manodopera. Ma quando la siccità riduce le produzioni agricole e le politiche dei Paesi ricchi impediscono gli ingressi legali per lavoro, come si pensa di migliorare le relazioni tra nazioni e le condizioni economiche generali ? Troppe incognite si celano dietro il meccanismo degli aiuti allo sviluppo citato nel documento. Un piccolo esempio è la contraddizione tra la tutela del made in Italy e la necessità di aprire il mercato e la produzione agroalimentare ai prodotti dei paesi terzi, africani e Ucraina innanzitutto, che vede la rivolta degli agricoltori nostrani.
I Paesi colpiti dalla crisi climatica sono in molti casi i più poveri e, quando guardiamo gli altri, la crisi riguarda maggiormente le regioni meno ricche dei Paesi industrializzati. La crisi climatica delle regioni ricche viene facilmente mascherata con la scarsa crescita del PIL: se il mondo complessivamente non è più in grado di “crescere”, lo è perché lo sfruttamento delle risorse e del territorio è ormai al limite, ma questo non lo troverete nel comunicato. Si dice che la via dell’inferno sia lastricata da buone intenzioni……
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti