L’alluvione che ha recentemente colpito la regione di Valencia, in Spagna, ha provocato devastazioni significative e causato un alto numero di vittime. Ad oggi, il bilancio dei decessi supera le 215 persone, con danni materiali ingenti, tra cui automobili e strutture trascinate via dall’acqua. Il fenomeno è stato aggravato da piogge eccezionalmente intense, che hanno riversato in poche ore l’equivalente delle precipitazioni di un anno. Molte aree sono ancora inaccessibili e diversi residenti risultano dispersi. L’alluvione è stata causato da una combinazione di fattori meteorologici e climatici, aggravati dai cambiamenti climatici e dalla vulnerabilità del territorio. È stato innescato da piogge torrenziali concentrate in un breve periodo, scaricando l’equivalente delle precipitazioni annuali in poche ore. Questa intensità è stata attribuita a una tempesta mediterranea, in cui masse di aria umida si sono condensate rapidamente, causando forti rovesci. Questo fenomeno, noto come “DANA” (Depresión Aislada en Niveles Altos), è comune nella regione iberica e porta frequentemente a temporali di eccezionale intensità. E i cambiamenti climatici hanno amplificato gli eventi atmosferici estremi, rendendo le piogge intense più frequenti e intense. Il Mediterraneo si sta riscaldando più velocemente di altre regioni, contribuendo a una maggiore evaporazione e a livelli di umidità più elevati nell’aria. Di conseguenza, quando queste masse di aria umida incontrano condizioni favorevoli, si verificano precipitazioni molto intense, come quelle osservate a Valencia. L’urbanizzazione rapida in alcune zone della regione di Valencia ha reso il territorio più vulnerabile. E le infrastrutture di drenaggio e protezione contro le alluvioni in alcune aree non si sono dimostrate sufficienti per gestire eventi estremi. Questo disastro ha evidenziato la necessità di strategie di adattamento per affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici, incluse infrastrutture di drenaggio potenziate e una pianificazione urbanistica più consapevole dei rischi idrogeologici.
Tra le tante immagini arrivate dalla tragica situazione di Valencia, una mi ha colpito per il suo valore simbolico. Si tratta di una catasta di auto tra i palazzi, in una stretta strada in discesa della città spagnola; ammassata disordinatamente, come se fosse stata accumulata in un grande deposito di autodemolizione, preceduta e frammista a cassonetti di raccolta differenziata dei rifiuti, viene guardata con incredulità, stupore e rassegnazione dalle persone presenti alla sua base. Si trattava invece di auto nuove, posteggiate lungo le strade della città e trascinate nel percorso in discesa dalla furia delle acque piovute per alcune ore e che in un solo giorno avevano superato la quantità che di regola cade in un anno.
Ho detto “di regola”, ma ormai la regola non viene più rispettata, se non, approssimativamente, nel conto totale delle precipitazioni che nell’area mediterranea giungono in forme diverse dal passato: poca neve (ma quando arriva, è abbondante), tanta pioggia battente (che spesso bagna le persone più dal basso che non sulla testa per la forza con cui cade), molta grandine e tanti fenomeni diversi come tornado, uragani, fulmini in quantità mai viste prima.
Le immagini colpiscono perché riguardano la distruzione dei segni della “nostra” civiltà occidentale: le automobili, le autostrade, i supermercati con i garage sotterranei, le città coperte di cemento e asfalto, i sistemi di allerta elettronici, la struttura della governance. Tutto quello che è saltato in Spagna non era “arretrato” e residuo di un sistema economico industriale obsoleto; al contrario, era il frutto di quanto di meglio la nostra civiltà può offrire, compreso il meccanismo di consumo dei servizi legati alla nostra vita. Progressivamente le nostre città (la Spagna non è diversa dall’Italia o dalla Germania) hanno abbandonato la costruzione di servizi sociali (ospedali, scuole, uffici amministrativi) per diventare centri di riposo (enormi quartieri-dormitori) e turismo da rapido consumo. Non più le vacanze della nascente borghesia nel XVIII secolo che Goldoni descriveva nella Trilogia per la villeggiatura, ma le vacanze “mordi e fuggi” da fare nei weekend, dormendo nei B&B che hanno sostituito le case nei centri storici causando la “gentrificazione” (trasformazione di quartieri popolari dei centri storici in strutture di pregio o commerciali) o addirittura nei bus di colore verde fosforescente che solcano l’Europa in lungo e largo.
Tornando al disastro spagnolo, conseguenza evidente del cambiamento climatico, esso non è molto diverso da quelli italiani di questi anni, se non nella entità dei danni e dei morti. Peraltro queste ridotte entità dei disastri italiani sono dovute al caso, la natura pedoclimatica delle località colpite, la struttura idrografica e la distribuzione della popolazione, e non alle strutture socioeconomiche esistenti. Anzi, c’è il paradosso che le forze politiche al governo – centrale e locale – dei due Stati, inversamente distribuite, hanno collezionato lo stesso fallimento e mostrato la stessa incapacità a “prevedere” e “governare” il disastro. Se non fosse tragicamente criminale l’atteggiamento dei fascisti spagnoli che se la prendono distruggendo l’auto e picchiando i governanti, sarebbe ridicolo: che cosa hanno fatto i loro alleati al governo centrale in Italia? Sono stati molto più capaci? Hanno cambiato le cose, ora che in questo Paese governano? In realtà l’ideologia industrialista che guida le nostre élite (di destra o sinistra che siano), è la stessa ed è fallimentare.
L’industria e le sue istituzioni: le associazioni delle imprese, i sindacati, le cooperative, le strutture – di stato o private – che guidano l’istruzione, la sanità, i soccorsi e l’emergenza, hanno tutti fallito e sostanzialmente non per colpa loro. Ora è chiaro che il disastro del 2005 negli USA – l’alluvione in Louisiana causata dall’uragano Katrina con 1392 morti e 125 miliardi di dollari di danni – nonostante le notevoli responsabilità dell’amministrazione Bush, furono dovute solo in parte dall’incapacità amministrativa e dalla particolare ideologia economica che credeva nell’illimitato progresso dato dal mercato. La realtà di oggi conferma l’incapacità di qualunque ideologia (socialista o capitalista) di avere una relazione positiva con l’ambiente, poiché esse collocano l’industria e il mercato (sociale o di capitale) al di sopra della relazione di cooperazione tra viventi, di rispetto delle diverse esigenze di essi, di presa in considerazione dei tempi e dei modi di relazione con la Natura. Avevamo già scritto che le acque hanno un loro percorso e che il loro rispetto è un imperativo, indipendente dai nostri tempi e dalle nostre strutture sociali. Non a caso uno dei video sul disastro spagnolo mostra la cittadina di Almonacid de Cuba salvata dalle acque da una diga edificata a margine dell’abitato, durante l’impero romano duemila anni fa (che per fortuna nei secoli successivi non è stata abbattuta).
Non solo, ma le conoscenze che acquisiamo non ci fanno aprire gli occhi sulla situazione reale. Il fenomeno della DANA (Depresion Aislada en Nivelles Altos – depressione isolata nei livelli alti), a cui avevo già accennato parlando delle alluvioni in Romagna in uno scorso articolo (qui) è ben conosciuto, tanto da venire spiegato con parole semplici, accessibili anche agli amministratori, in un divertente spettacolo di Giobbe Covatta “6 gradi” che con ironia presenta l’effetto del futuro aumento di temperatura del nostro pianeta. L’Agenda 2030 fu creata con l’obiettivo di evitare o almeno ridurre tutto quello che sta succedendo.
Non ci sono soluzioni alternative, si devono cambiare le politiche del territorio e si deve dire addio al simbolo del progresso: l’automobile alimentata con combustibili fossili. Come costruire questo futuro? Vi è un’immagine che nel dolore ci ridona ottimismo: a fronte della situazione di abbandono che in tanti (persone e animali) hanno vissuto in Spagna, in Italia, in Marocco, in Bangladesh, e allo sciacallaggio che alcuni sono stati tentati di operare, ci sono migliaia di umani (e di animali) che hanno operato in cooperazione; muniti di rudimentali attrezzi hanno lavorato per salvare e ricostruire. Gli angeli del fango che vedemmo a Firenze dopo l’alluvione del 1966 si sono visti in Romagna e a Valencia e operano in ogni altra parte del mondo con spirito di cooperazione, ridicolizzando gli enormi progressi tecnologici che dovrebbero cambiare la nostra vita, ma in realtà nulla fanno per migliorarcela.
A distanza di sessant’anni sono ancora le mani, la pala e lo spirito di solidarietà che danno speranza al mondo.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti