La COP29 si è svolta a Baku, Azerbaigian, dall’11 al 23 novembre 2024, con una coda nel giorno successivo per tentare di trovare l’accordo sul documento finale. Durante le sessioni iniziali, è stato proposto un nuovo obiettivo collettivo per il finanziamento climatico di 1.300 miliardi di dollari, annui, per sostituire il target di 100 miliardi stabilito nelle precedenti COP e mai completamente adempiuto. Dopo negoziati intensi, è stato concordato un più limitato impegno di 300 miliardi di dollari annui dal 2035 per sostenere l’azione climatica nei Paesi in via di sviluppo. È stata finalizzata l’operatività del Fondo Loss and Damage Fund, con una struttura di governance definita e un finanziamento iniziale di oltre 730 milioni di dollari. Il Fondo sarà operativo dal 2025 e mira a sostenere i Paesi vulnerabili che affrontano danni irreversibili causati dal cambiamento climatico. Adattamento e mitigazione: i delegati hanno approvato aggiornamenti agli obiettivi globali di adattamento e programmi per accelerare la mitigazione delle emissioni. Tuttavia, il processo di revisione delle Contributi Determinati a livello Nazionale (NDC) è stato rimandato. Transizione energetica: la questione dell’eliminazione graduale dei combustibili fossili è stata discussa senza un accordo vincolante. Le tensioni sono emerse soprattutto tra Paesi produttori di petrolio e delegati che spingono per l’abbandono rapido di queste risorse. Trasparenza e monitoraggio: è stata lanciata la piattaforma Baku Global Climate Transparency, che intende rafforzare la rendicontazione degli impegni climatici. Questo strumento mira a promuovere responsabilità e trasparenza nelle azioni intraprese dai Paesi. La COP29 ha visto un numero inferiore di partecipanti rispetto alle edizioni precedenti, con assenze di rilievo come quelle di Joe Biden, Lula da Silva, Ursula von Der Leyen. Questo ha sollevato interrogativi sull’efficacia del vertice nel raggiungere accordi inclusivi. I lavori si sono conclusi il 24 novembre, con l’adozione di risoluzioni che lasciano aperte questioni cruciali che richiedono ulteriore lavoro nelle prossime conferenze.
Francamente non so da dove iniziare per descrivere l’annunciato fallimento della COP29. Le posizioni sull’accordo conclusivo della COP29, presentato il 24 a Baku, riflettono le tensioni tra l’urgenza della crisi climatica e i compromessi raggiunti e aggravano il divario tra Nord e Sud del mondo.
Non è stato stabilito un calendario chiaro per l’eliminazione graduale dei combustibili fossili pur definita alla COP28. Una grande delusione per tutti coloro che avevano fatto pressione affinché l’accordo includesse obiettivi vincolanti e specifici per la transizione energetica, sperando in un progresso rispetto alla precedente COP. Le dichiarazioni del Presidente azero, che ha definito petrolio e gas “doni di Dio“, sono state percepite come un segnale negativo, considerando proprio il consenso raggiunto alla COP28 sull’abbandono progressivo dei fossili.
Il nuovo obiettivo di 300 miliardi di dollari annui dal 2035, affatto ambizioso, è ovviamente considerato insufficiente rispetto alle necessità stimate per i Paesi in via di sviluppo, che superano i 2 trilioni di dollari annui secondo studi recenti. Organizzazioni come Oxfam hanno evidenziato il rischio che gran parte dei fondi promessi derivino da prestiti, aumentando il debito dei Paesi già vulnerabili.
L’iniziativa per una piattaforma di trasparenza globale è stata criticata per la mancanza di dettagli sul monitoraggio e sull’attuazione degli impegni presi. Temo che, in realtà, le promesse restino su carta. La revisione degli impegni nazionali di riduzione delle emissioni (NDC) è stata rimandata, suscitando frustrazione tra tutti coloro che chiedevano progressi più rapidi.
I Paesi in via di sviluppo hanno espresso, giustamente, insoddisfazione per la lentezza nella mobilitazione dei fondi e per la mancanza di un chiaro meccanismo redistributivo che affronti i danni storici causati dai Paesi industrializzati.
Guterres ha accusato le nazioni ricche di non aver fatto abbastanza per garantire la giustizia climatica, evidenziando che “i ricchi causano il problema, mentre i poveri pagano il prezzo più alto”. Il ruolo dell’Azerbaigian come ospite della COP29 è stato messo in discussione, dato il suo forte legame con le industrie petrolifere, alimentando dubbi sull’imparzialità e sull’effettivo impegno climatico del governo azero. Il numero ridotto di delegati rispetto alla COP28 ha sollevato preoccupazioni sull’efficacia e l’inclusività del processo decisionale e l’assenza di leader mondiali chiave, come Joe Biden e Lula da Silva (che ospiterà la COP30) nonché di Ursula von Der Leyen, è stata interpretata come un segnale della debolezza politica globale nell’affrontare la crisi climatica.
Ed infatti tocca prendere atto, con notevole rammarico, che sono ormai evidenti i segnali che indicano una debolezza politica globale nell’affrontare efficacemente la crisi climatica, sia in Europa che nel mondo. Nonostante i progressi nelle precedenti conferenze climatiche, come l’adozione dell’Accordo di Parigi nel 2015, gli obiettivi stabiliti si sono dimostrati non sufficientemente ambiziosi per mantenere l’aumento delle temperature globali al di sotto di 1,5°C. La COP29 non è riuscita a stabilire un calendario vincolante per l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, nonostante gli avvertimenti degli scienziati e le pressioni degli attivisti. La lentezza nel raggiungimento degli impegni finanziari per sostenere i Paesi in via di sviluppo riflette una mancanza di volontà politica da parte dei Paesi più ricchi. I Paesi produttori di combustibili fossili continuano a opporsi alle transizioni rapide, citando motivazioni economiche e occupazionali. Questa resistenza si traduce in compromessi che limitano l’efficacia degli accordi climatici: il caso dell’Azerbaigian alla COP29, che ha difeso l’uso di petrolio e gas, rappresenta un esempio emblematico di come gli interessi economici locali possano ostacolare la cooperazione internazionale. Le tensioni geopolitiche, come le rivalità tra Cina, Stati Uniti e UE, complicano la costruzione di un fronte comune contro il cambiamento climatico. L’assenza di leader chiave ha sollevato dubbi sull’impegno di alcune potenze mondiali verso un’azione climatica concertata. A livello europeo e globale, la leadership in tema di clima appare insufficiente. Nonostante iniziative come il Green Deal europeo, alcuni Stati membri continuano a ostacolare proposte ambiziose, come la Nature Restoration Law. Analogamente, a livello internazionale, i leader non sempre danno priorità alla crisi climatica rispetto ad altre questioni economiche o politiche.
Porre rimedio alla debolezza politica globale nell’affrontare la crisi climatica richiede un approccio multilivello, che coinvolga governi, aziende, organizzazioni e cittadini. So di ripetermi, ma continuo a dire che occorrono accordi vincolanti: i leader mondiali devono concordare obiettivi climatici più ambiziosi e vincolanti, accompagnati da sanzioni per i mancati adempimenti. Una collaborazione più stretta tra Stati Uniti, Cina e Unione Europea è cruciale per superare le rivalità geopolitiche e guidare il resto del mondo verso soluzioni comuni. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite deve intensificare la pressione sui Paesi per rispettare gli impegni climatici, facendo leva su strumenti diplomatici e mediatici.
Così come è fondamentale incrementare i fondi per energie rinnovabili e tecnologie verdi per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Devono essere rimossi i sussidi che favoriscono il petrolio, il carbone e il gas, reindirizzando le risorse verso energie sostenibili. Bisogna assicurare che i negoziati climatici includano rappresentanti delle comunità indigene, dei giovani e dei gruppi vulnerabili e le ONG e i cittadini devono essere integrati nei processi di verifica per garantire che i governi rispettino le promesse. E poi, è indispensabile rafforzare la giustizia climatica e coinvolgere la società civile promuovendo programmi educativi che sensibilizzino sulle sfide climatiche e sugli stili di vita sostenibili. Occorre rafforzare le leggi per la tutela degli ecosistemi chiave, promuovendo la riforestazione e il ripristino ambientale e sanzionando gli Stati europei che continuano a ostacolare la Nature Restoration Law.
La ricetta è tanto nota quanto non praticata. Ma unendo questi (e altri) elementi con la pressione costante da parte dei cittadini, la crisi climatica può essere affrontata con maggiore urgenza ed efficacia, contribuendo a costruire un futuro sostenibile per il pianeta. Repetita iuvant.
Giuseppe d’Ippolito