La povertà, in termini scientifici, è definita come una condizione di deprivazione materiale, sociale ed economica che impedisce agli individui di soddisfare i bisogni fondamentali per una vita dignitosa. La povertà è spesso misurata in base al reddito e alla spesa pro capite. Secondo la Banca Mondiale, una persona è considerata in povertà estrema se vive con meno di 2,15 dollari al giorno. Il Multidimensional Poverty Index (MPI), sviluppato dall’ONU e dall’Università di Oxford, considera invece diversi fattori, tra cui salute, istruzione e standard di vita. La povertà assoluta è la mancanza di risorse per soddisfare bisogni essenziali (cibo, acqua, sanità). La povertà relativa viene definita, invece, la condizione di svantaggio rispetto agli standard medi di vita in una società. C’è poi la povertà energetica e ambientale che corrisponde alla mancanza di accesso a energia, acqua potabile, servizi igienici e condizioni ambientali salubri. Infine, la povertà sociale e culturale che si concretizza nell’esclusione da opportunità educative, lavorative e partecipazione sociale. La povertà, quindi, non è solo una questione di mancanza di denaro, ma un fenomeno complesso che coinvolge molteplici dimensioni della vita umana.

 

 

Mentre piomba sulle nostre spalle il peso di un aumento dei dazi per le esportazioni verso gli USA con lo show di un presidente/commerciante (un tipo di conflitto che si aggiunge alle guerre cruente in corso – come se se ne sentisse il bisogno), i governi europei sono alle prese con problemi di bilancio e di costi energetici. Si scopre così, come se fosse arrivata d’improvviso un’epidemia, che i cosiddetti “poveri” sono aumentati nella società europea ed emergono, come fossero funghi, mentre si affrontano problemi della più diversa natura. Per i poveri sembra non esistere una soluzione alternativa a quella di “nasconderli” in vario modo, una volta che li si è identificati in una certa categoria o a causa di un certo problema: gli “esodati” del mondo produttivo dopo una modifica del sistema pensionistico; i nuovi immigrati senza titolo di soggiorno; le donne sole con parenti o figli a carico; gli ammalati cronici o quelli che scoprono all’improvviso di doversi curare per un accidente o un malanno letale. Tutte immagini che non evocano necessariamente quella di povertà (e così diventano degli ottimi nascondigli per tutelare i governi dalle critiche che si fanno alle loro politiche) ma la producono, creando nelle persone coinvolte una modifica radicale del loro status sociale ed economico ed una diffusa paura nella società di poter essere identificati in queste nuove categorie. Sono meccanismi che non creano rivolta verso delle palesi ingiustizie del destino o dei meccanismi amministrativi, con un conseguente senso di solidarietà, opposizione o ricerca di comprensione, ma producono la vergogna per essere piombati in una condizione che si cerca di mascherare attraverso quella che noi chiamiamo “dignità”; dignità che non aiuta a risollevarci perché, paradossalmente, così facendo aiutiamo il sistema a renderci invisibili. Varrebbe la pena guardarci allo specchio e dirci chiaramente: siamo poveri senza avere fatto niente per diventarlo! In tal modo si tornerebbe a considerare un problema che pensavamo non ci dovesse coinvolgere, ma la cui soluzione ci permetterebbe dopo la presa di coscienza di vivere meglio.

Ritratto di persona con metafora visiva per la memoriaDovremmo porci il problema della povertà, come problema dell’assenza. Assenza di soluzioni, di presa in considerazione, di identità in una società che ha fondato i suoi obiettivi attraverso l’apparire, la presenza a tutti i costi, il danaro come principale mezzo per ottenerli .
In realtà, sono decenni che viene affrontato in vario modo il problema della povertà e, soprattutto, che si cerca di districare – almeno teoricamente – la matassa di problemi che ne derivano. Perché parlare di povertà implica parlare di diseguaglianze e di miseria; serve fare delle misurazioni, avviare delle relazioni tra valori differenti e si arriva a parlare, per conseguenza, di povertà relativa e di povertà assoluta. Si tratta di uno dei più gravi problemi del mondo, che riguarda milioni e milioni di persone. Risolverlo è una delle grandi priorità dei nostri tempi, anche se il modo di affrontarlo porta sempre a parlare della povertà degli altri, non di quelli della nostra realtà. Per certi versi è vero che la povertà in altre situazioni è più evidente, ma la povertà nel mondo non risparmia nessuno, da nord a sud. Si stima che quasi l’11% della popolazione mondiale viva con massimo 1,90 dollari al giorno. Quasi l’11%, in valori assoluti, significa più di ottocento milioni di persone che non possono procurarsi nemmeno il minimo necessario per la sopravvivenza. Per fare un esempio, Burundi, Ruanda e Isole Salomone sono alcuni dei Paesi più poveri del mondo e non è un caso che due di essi si trovino nel continente africano. Ma, come ho detto, non bisogna commettere l’errore di “localizzare” il problema: la povertà riguarda tutti, indistintamente, anche se per comodità di classificazione la dividiamo in povertà assoluta e povertà relativa.

La povertà assoluta viene anche chiamata, più chiaramente, povertà estrema. È la condizione di chi si ritrova a dover vivere con 1,90 dollari al giorno e, in questa condizione, non si dispone di risorse essenziali come cibo, acqua, casa, vestiti, medicine e, aggiungerei, di energia, con significativa importanza, di recente messa in evidenza. Dobbiamo aggiungere che essa è stata spesso indotta non da improvvisi cambiamenti climatici (che sono comunque avvenuti, aggravando una situazione reale di necessità), ma dall’agire dei Paesi occidentali: in tanti Paesi tropicali l’alimentazione non costituiva un grande problema, poiché la natura generosa offriva alimenti (mango, papaia, banane) a prezzo quasi nullo per garantirsi la sopravvivenza anche in tempi di magra; è stato l’avvento delle monocolture da esportazione (caffè e cacao, ad esempio) a causare la dipendenza dal mercato internazionale, la sostituzione delle produzioni locali, il disastro economico.
La povertà relativa, invece, è un concetto diverso, poiché si tratta dell’impossibilità di fruire di beni o servizi in rapporto al reddito pro capite medio di un determinato Paese. Chi si trova in povertà relativa, quindi, potrebbe comunque avere il minimo necessario per la sopravvivenza ma non usufruire di tutte le possibilità e i servizi disponibili in un Paese. Abbiamo anche scoperto che potrebbe avere un reddito elevato, ma trovarsene privato a causa di meccanismi fiscali o economici, legati a regole concepite per una diversa struttura sociale o crisi del mercato finanziario. Resta un dato di fatto: dobbiamo risolvere il problema della povertà e dobbiamo fare in modo che tutte le persone possano avere una vita degna di questo nome.

Majid Rahnema, ex delegato dell’Iran all’ONU e successivamente delegato dell’Unesco e rappresentante dello stesso ONU, in un libro di una ventina di anni fa “Quand la misère chasse la paureté” (un titolo francese che è più significativo di quello dato in Italia ad una conferenza dello stesso autore “Quando la povertà diventa miseria”) poneva in evidenza gli aspetti etico-culturali e di immagine che rende la povertà insopportabile. In esso, paradossalmente, si parlava della necessità di lasciare i poveri “tranquilli” e di permettere la loro rinascita attraverso una povertà reinventata: contare sulle proprie forze di lavoro e morali per ricostruire una società più solidale e meno propensa alla corsa per affermarsi. Poiché la povertà (dignitosa) nelle nostre società è diventata esecrabile miseria, andrebbe sottratta a questa condizione di condanna e vergogna. L’esempio più evidente per superare questa condizione è affrontare la povertà energetica.
Per povertà energetica si intende l’incapacità da parte delle famiglie o persone di acquistare un minimo di beni o servizi energetici, con evidenti conseguenze sul loro benessere. Vale la pena ricordare che la necessità di avere una temperatura più costante e disporre di energia per servizi è una esigenza di tutti i viventi: gli animali di compagnia che vivono con noi, vivono più a lungo di quelli all’aperto, aspetto che prescinde in parte dalla alimentazione che gli offriamo. Insomma, la vita dipende da un insieme di fattori in cui quello più importante sembra sia mantenere costante il più possibile la temperatura esterna.
L’energia disponibile per fare questo è pertanto un diritto alla vita che si intreccia con quello alimentare, a sua volta connesso con le condizioni di salute che dipendono fondamentalmente da ciò che si mangia e come ci si alimenta.

Un intreccio di condizioni da affrontare che fa saltare le differenze ed i distinguo a cui ci hanno abituato le politiche di tutela delle fasce più deboli e, soprattutto, ci costringono ad avere sempre in primo piano il problema della povertà. Il non avere fatto niente per intervenire dalle condizioni dei meno abbienti, ci costringe ad una costante emergenza nel cercare, ad esempio, soluzioni alle tariffe da applicare per le bollette della luce e del gas. Ma quando affrontiamo questo aspetto, ci rendiamo conto che esso coinvolge quello del finanziamento alle ristrutturazioni immobiliari e quello dei bonus elargiti per diversi servizi, ma non ne siamo venuti fuori, a causa di una visione molto limitata e senza aver cambiato strutturalmente la prospettiva di utilizzo dell’energia. La riconversione energetica così intreccia i temi del cambiamento climatico con i temi dell’abitare. In fondo parliamo di cambiamento della struttura sociale. Tanto per dare delle cifre e per affrontare un problema grande ma circoscritto: in Italia si parla della necessità di montare, per il riscaldamento/raffreddamento degli ambienti, il sistema delle pompe di calore: un fattore essenziale per combattere il cambiamento climatico e ridurre il consumo energetico e che la transizione energetica non può eludere. Vi è una necessità di intervento in circa 10,3 milioni di abitazioni in condizioni energetiche di classe F-G (significa di bassissima efficienza energetica); soltanto 5,9 milioni di esse sono in grado di poter installare simili impianti, causa limiti strutturali o scarsa convenienza tecnica; purtroppo, solo 1,75 milioni potrebbero farlo a causa del basso reddito delle famiglie e delle persone che vi abitano o sono proprietari. Un piccolo problema diventa un problema generale di povertà energetica conseguente alla povertà relativa. Se quest’ultima non viene curata potrebbe diventare un problema assoluto. La risposta non può che essere articolata: la transizione non si effettuerà a colpi di accetta, ma solo partendo da un mix di interventi che cerchino di recuperare – anche parzialmente – i sistemi attualmente esistenti o di riconvertirli con una certa gradualità. Questa risposta ottimale si scontra con l’attuale situazione delle aziende del settore che tirano ciascuna acqua al proprio mulino, non rendendosi conto che si potrebbe realizzare in tal modo un collasso del sistema. Chi vende energia prodotta dal fossile (petrolio e gas) vorrebbe cambiare sistema il più tardi possibile; chi produce elettrico anche rinnovabile, spinge per la sostituzione immediata ma non trova forze politiche e sociali disponibili ad effettuarla, poiché comporterebbe molti sacrifici per tutti; chi vorrebbe inserire il vettore idrogeno (forse una leva necessaria per la transizione) ha poca voce in capitolo e si espone a critiche di sistema. Infatti, l’idrogeno è un vettore cioè non è una fonte primaria, ma si ottiene da molte possibili fonti primarie, rinnovabili, fossili e anche “neutre”, cioè trovate – sembra- in giacimenti naturali.

Avviare un mix di transizione energetica sarà possibile solo se tutti saranno in grado di effettuarla, quindi anche le fasce deboli o in povertà energetica. La UE ha un esempio da poter seguire, quando per la trasformazione dell’agricoltura e la creazione del mercato comune non si potette prescindere dai piccoli produttori e si dovettero trovare soluzioni vantaggiose anche per loro. Avveniva sessanta anni fa; oggi che si è affermata la politica dei mercati concorrenti, anche gli agricoltori efficienti ma poco competitivi sono stati abbandonati al loro destino, di produttori alimentari ed energetici.
C’è una grande confusione e di questo dovrebbero avvalersi le associazioni dei consumatori. Ma anche le associazioni di tutela dei consumatori, cresciute all’insegna delle soluzioni singole per problemi specifici, si trovano sostanzialmente impotenti dinanzi alla possibilità di incidere sul costo delle bollette e sulle singole situazioni sia di produzione che di consumo. Il sistema non prevede soluzioni “sociali”, ma solo soluzioni individuali, caso per caso. Ma l’energia è un problema sociale e chiedere che si abbia un “diritto di cittadinanza” per l’energia, creando un sistema di tutela per fasce, e si dovrebbe prevedere che si articolino le fasce sociali in modo più complesso. Le proposte del governo sono in direzione esattamente opposta, poiché le fasce di contribuzione fiscale, necessarie per individuare i non abbienti, vengono ridotte e non aumentate. I poveri vengono confusi con gli altri, si negano gli strumenti di tutela preventiva legati all’abbassamento di reddito reale e si applica la politica dei bonus una tantum. Anche l’idea che le questioni sollevate possano essere risolte per unità territoriali sempre più piccole sino ad arrivare al condominio, si rivela una sostanziale utopia in una società in cui vi è la prevalenza delle esigenze individuali su quelle comuni e collettive.

A problemi complessi si devono dare soluzioni complesse, la prima delle quali è creare un legame territoriale per l’energia. Se l’energia viene prodotta e consumata in loco, il suo impiego diventa molto più efficiente e meno costoso. Quindi, è fondamentale creare comunità energetiche che abbiano un respiro più ampio, che affrontino i problemi della coesione e della cooperazione sociale per dare una direzione ai tentativi di soluzione. Oggi vi è timore a fare questo e le società che si interessano di energia sono concentrate sugli aspetti economico finanziari. Non arriveremo da nessuna parte se non considereremo i problemi degli “altri” come nostri e non li affronteremo con calma e responsabilità.
Chi è in condizione di povertà ha bisogno innanzitutto di essere ascoltato. Dovremo farlo senza pensare di trovare soluzioni al posto loro, ma con loro. Il futuro, visto in questa luce, non è un tunnel senza uscita.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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