Dopo la rielezione di Donald Trump nel novembre 2024, le tensioni commerciali tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea (UE) sono aumentate, influenzando significativamente il settore agricolo. Nel febbraio, il presidente Trump ha annunciato l’introduzione di dazi su una vasta gamma di prodotti europei, inclusi acciaio, alluminio e automobili, con l’obiettivo di ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti. I dazi sono stati poi introdotti, per quasi tutti i paesi del mondo e in varie proporzioni, il 2 aprile ma ieri, il 9, Trump ne ha annunciato la sospensione per un periodo di 90 giorni. Queste mosse hanno suscitato preoccupazione tra i paesi membri dell’UE, che hanno iniziato a considerare misure di ritorsione. L’Unione Europea ha così annunciato l’introduzione di dazi di ritorsione del 25% su prodotti statunitensi, per un valore di 21 miliardi di euro. Queste misure sono state una risposta ai dazi precedentemente imposti dagli Stati Uniti su acciaio, alluminio e automobili europei. A partire dal 15 aprile 2025, l’UE avrebbe iniziato (anche questa decisione è stata sospesa per 90 giorni) ad applicare un dazio del 25% sulle importazioni di mais (granoturco) dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di limitare l’afflusso di questo prodotto nel mercato europeo. Questo dovrebbe avere un impatto significativo, poiché le importazioni di mais statunitense erano aumentate notevolmente nell’anno precedente. Inoltre, l’UE ha pianificato l’introduzione di dazi su altri prodotti agricoli statunitensi: un dazio del 25% sulle importazioni di soia, carne bovina e pollame dagli Stati Uniti, previsto per entrare in vigore il 1° dicembre 2025. Queste misure hanno l’obiettivo di esercitare pressione politica sugli Stati Uniti, colpendo settori chiave dell’economia americana, in particolare quelli situati in stati con una forte base elettorale repubblicana. È importante notare che, nonostante queste tensioni, l’UE ha espresso una preferenza per la negoziazione e la risoluzione diplomatica delle dispute commerciali, cercando di evitare un’escalation ulteriore del conflitto. Questa cronistoria evidenzia come le dispute commerciali tra Stati Uniti e Unione Europea avranno un impatto significativo sul settore agricolo, con l’imposizione di dazi su prodotti chiave e conseguenti ripercussioni sulle economie di entrambe le parti.

 

 

Da piccolo ho imparato che l’espressione “pagare dazio” significava “pagare per un errore commesso”, e che la sua negazione “non pagare dazio” aveva un significato leggermente diverso: “fingere di non capire o di non accorgersi, per non pagare”. In fondo, il senso non era dissimile da quello finanziario di queste ore, poiché l’aumento del dazio incide sui costi di transazione delle merci con l’effetto di aumentare il prezzo finale al consumo. Quanto sia maggiorato e quanto si modifichi nel corso delle trattative il dazio che gli USA intendono applicare ai singoli Stati, è un fatto che serve al gioco di borsa. Alla fine, con qualunque accordo, resteranno le restrizioni e gli effetti prodotti – anche temporaneamente – ridisegneranno le relazioni internazionali. Non possiamo pensare che si scateni una guerra commerciale senza conseguenze a breve e medio termine.

Donna che interagisce con il denaroCome consumatori, le domande a cui dovremmo dare risposta sono: che effetto avranno sul nostro paniere di acquisti le misure in corso, visto che si intrecciano “dazi” e “contro dazi”? E quale sarà l’effetto finale sul clima ed i suoi cambiamenti, che certamente non si arresteranno a seguito di tali misure? Diciamo che, in generale, la protezione dei mercati locali e delle produzioni all’interno di un’area non è una cosa completamente negativa dal punto di vista delle condizioni di vita delle comunità presenti nell’area. L’esperienza storica della protezione delle produzioni nazionali ha accompagnato lo sviluppo industriale: è avvenuto negli USA nel corso del XIX secolo, in Giappone e negli altri Paesi asiatici nel corso del XX secolo, come anche nei Paesi del MEC (Mercato Comune Europeo, poi diventato Unione Europea), durante la seconda metà del secolo scorso, per favorire la re-industrializzazione dell’area distrutta dalla guerra. Particolare importanza ha assunto in questo caso il settore agricolo, che era largamente insufficiente a coprire i fabbisogni della popolazione europea con i suoi bassi livelli produttivi. Si sono alzate barriere per consentire alle economie interne di svilupparsi e aumentare le produzioni. Naturalmente l’esperienza ci dimostra che il prezzo pagato per il benessere raggiunto è stato non solo l’inquinamento, ma anche il peggioramento delle condizioni di vita nelle regioni del pianeta che, pur contribuendo con le loro risorse, non hanno usufruito dei vantaggi del loro sfruttamento. È avvenuto sia all’esterno, sia all’interno dei singoli Stati creando quella crescita “a macchia di leopardo” che ha caratterizzato il dopoguerra.

La modifica e il ripristino dei dazi, utilizzato per proteggere la ripresa degli USA promessa da Trump, è molto simile a quello delle chiuse utilizzate per far superare alle navi i dislivelli. Alzando artificialmente il prezzo di mercato dei prodotti “stranieri”, sino a raggiungere o superare quello delle produzioni locali, si consente la loro introduzione nel mercato interno ma se ne disincentiva il consumo, favorendo quello dei prodotti nazionali. Teoricamente, si aiuterebbe lo sviluppo dei settori locali e il profitto ottenuto si dovrebbe distribuire lungo la filiera produttiva su tutti: produttori, operai, venditori, imprenditori degli USA e di chi si unisce a loro. È avvenuto in passato, ma in condizioni molto diverse. Oggi, dopo un trentennio di relazioni finanziarie multilaterali, nessuna produzione viene fatta negli USA con componenti o materie prime solo nazionali e l’applicazione di dazi all’ingresso influenzerebbe anche ciò che si produce nell’area. L’applicazione dei contro-dazi da parte degli Stati colpiti aggraverebbe questo elemento, perché ridurrebbe gli sbocchi di mercato esterni all’area; insomma, a lungo andare, questo sistema si ritorcerebbe contro i suoi promotori. Non solo, ma la trasformazione tecnologica che, con la globalizzazione, avrebbe dovuto teoricamente permettere il salto della qualità di vita e portare ad un benessere generalizzato, si è ritorta contro chi l’ha prodotta. I cambiamenti climatici e le crisi come la pandemia o l’AIDS non hanno risparmiato nessuna regione del globo e abbiamo assistito al paradosso che, contrariamente al passato, i Paesi come gli USA, detentori di brevetti tecnologicamente avanzati in grado di superare le catastrofi, non hanno goduto di un miglioramento delle loro condizioni di vita e non sono rimasti l’esempio da seguire, come era avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale.

Persone che celebrano la giornata mondiale della popolazioneLa finitezza delle risorse del pianeta, soprattutto quelle dell’energia fossile, ha messo in evidenza i difetti di una società fondata sul danaro e sul profitto, in cui le rendite di posizione o finanziarie non compensano la perdita di benessere: o si cambia lo stile di vita, oppure i figli non potranno mantenere il benessere prodotto dai genitori. La globalizzazione non ha consentito di ottenere il primato a chi l’ha prodotta (USA e UE in primis) e il crollo dei Paesi socialisti, non ha significato la fine dell’intervento dello stato nella vita economica anzi, sempre paradossalmente, sono stati proprio i Paesi con forti economie ad intervento statale a migliorare le condizioni di vita al loro interno e ad assumere un ruolo sempre più visibile ed importante nello scacchiere mondiale. La Cina, senza essere coinvolta in nessuna guerra da cinquant’anni, ha assunto un ruolo guida e si propone nel mondo con una presenza, anche migratoria, fatta di investimenti e commercio. Le statistiche sulla fame nel mondo sono migliorate grazie al salto di qualità di questo Paese e non per i costanti aiuti allo sviluppo erogati, aiuti che hanno visto come principale finanziatore gli USA. Anche questo ha irritato Trump e gli investitori che lui rappresenta, i quali, attraverso la politica dei dazi, intendono scegliere i loro interlocutori e qualificare le relazioni da intrattenere con essi. È l’ammissione implicita dell’incapacità di guidare il pianeta e della volontà di ritagliarsi la fetta d’influenza più conveniente. Il sistema dei dazi è dunque un’arma di forte pressione al limite del ricatto verso chi esporta che, a mio avviso, attualmente viene utilizzata non per i risultati immediati, ma per strategie di medio e lungo termine. Un pungolo come stimolante (Sic!).

Tutto ciò che accade è l’effetto del neo-protezionismo, con la ripresa di accordi ed alleanze bilaterali e la fine del multilateralismo e della globalizzazione come sinora l’abbiamo vista. Gli effetti? La stessa Banca Mondiale, una trentina di anni fa, precisò che il protezionismo di settori produttivi non è compatibile con la crescita economica se non attraverso un quadro macroeconomico stabile, che è l’esatto contrario del quadro attuale. Forse anche per questo Trump spinge verso la chiusura della guerra in Ucraina e, come gli imperatori del passato, consente l’annientamento dei “ribelli” palestinesi per chiudere in modo cinico un altro capitolo della storia mondiale a guida USA. Qui Trump, con il buongusto che lo caratterizza e a differenza del passato, alla fine della guerra non intende cospargere sale sulle rovine di Gaza ma costruire resort di lusso.

Celebrazione della giornata mondiale dell'alimentazione con una palla o un globo circondato da ciboLa rottura del giocattolo dell’economia mondiale porta al pettine il nodo centrale del sistema industriale: la sua divergenza con i cicli della natura e con la vita sul pianeta. L’industria dell’auto e l’uso di energie fossili rendono impossibile la gestione dell’attività economica e della produzione di beni che rigeneri le fonti di approvvigionamento. Anche la struttura delle filiere non regge l’impatto con l’ambiente e produce effetti indesiderati (inquinamento, incidenti mortali, perdita di reddito) a causa del tentativo di rettificare i sistemi produttivi, utilizzando persone (ma anche piante e animali) che seguono cicli di vita che non sono costanti, ma mutano e si differenziano nel corso delle stagioni e del tempo sulle diverse aree del pianeta. Unire la produzione di energia e i cicli vitali sarà necessario per superare le crisi in corso, la cui natura risiede nelle relazioni che noi abbiamo con la natura e nell’uso che facciamo di un artifizio – la moneta – che non ha niente di naturale. Esso ha un aspetto positivo, poiché è un prodotto che, permettendoci di creare dal nulla dei sistemi di relazioni, possiamo modificare nel modo più opportuno senza temere nulla di catastrofico.

Dovremmo essere in grado di produrre energia in loco e consumarla in loco per quanto è possibile e fare lo stesso con quella che è la nostra energia personale: l’alimento che ci fa vivere. L’agricoltura e le energie rinnovabili sono un unicum e trovare il modo di unirle e metterle al centro di un sistema di vita sarà il progetto del futuro che renderà stabile l’economia .
Senza una stabilità complessiva dell’economia, costruire delle barriere doganali prelude a ulteriori passi: si passerà alla divergente politica dei tassi d’interesse e alla guerra delle valute, strumento ultimo per ridurre con svalutazioni l’esorbitante debito nel frattempo accumulato.

Se pensiamo ad un futuro migliore, dobbiamo rapidamente avviare un piano B per il nostro sistema di vita, sviluppare nuove alleanze e diverse relazioni sociali. Quelle attuali non reggeranno lungo.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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