A breve le istituzioni italiane e quelle della Unione
Europea interverranno legiferando sul come, dove
e perché produrre manufatti in modo sostenibile,
inserendoli in un sistema di economia circolare.
La proposta di regolamentazione comunitaria
vorrebbe offrire una base sostenibile ai consumi
di massa, ma come inserire le nostre produzioni in tale prospettiva?
Collegare fatti apparentemente distanti, come l’immagine delle produzioni italiane e il cambiamento climatico, non è difficile se si è abituati a guardare la realtà in prospettiva cercando di capire dove grosso modo si andrà a parare. Affronto questo tema perché a breve le istituzioni italiane e quelle della Unione Europea interverranno legiferando sul come, dove e perché produrre manufatti in modo sostenibile, inserendoli in un sistema di economia circolare. Si tratta di un dibattito in corso nel nostro Parlamento con un’indagine sul made in Italy e ampiamente avanzato nelle istituzioni comunitarie arrivate ormai a varare (se giunge in porto la mediazione della presidenza svedese) un regolamento quadro per l’elaborazione delle specifiche di progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili (detto ecodesign), abrogando la direttiva 2009/125/CE ora in vigore; in sostanza da noi si discuterà su cosa fare per sostenere i marchi italiani e in UE si interverrà per regolamentare in modo unitario l’ecodesign, settore di produzione fondamentale per chi pretende come le aziende italiane, di essere diffusore di qualità ed originalità.
Considero scontato il fatto che le produzioni ed i manufatti incidano sul cambiamento climatico, che siano originali e frutto dell’ingegno locale o fabbricati secondo metodologie e materiali introdotti artificialmente in un territorio. Il problema è che cosa fare per ridurne l’impatto senza ottenere effetti secondari sempre più disastrosi; che si tratti di impatti negativi come l’inquinamento da materiali e residui tossici o la distruzione della stabilità sociale, o anche di impatti ecologicamente positivi ma senza una reale articolazione sociale (ad esempio, prodotti troppo costosi per diffondersi in massa), si tenterà di regolamentare e controllarne l’organizzazione e la diffusione, con l’intento di giungere a realizzare gli obiettivi dell’Agenda 2030 – prorogati di fatto al 2050 – migliorando la condizione sociale nella UE e, per parte nostra, facendo del made in Italy un brand comunitario. Magari!
Il made in Italy svolge un ruolo chiave per la nostra economia, ad esempio in settori come l’agroalimentare, il tessile, l’abbigliamento e le calzature che coprono larga parte dei manufatti prodotti e rappresentano l’esportazione italiana in espansione. La sua immagine è un elemento per la loro affermazione nei mercati, perché permette la vendita di alcune produzioni molto particolari (prodotti selezionati tra vini, abbigliamento, scarpe ad esempio) come produzioni da élite, trascinando anche il prezzo e l’immagine delle altre produzioni italiane verso livelli più alti, soprattutto nell’esportazione. Un effetto sounding, che si ottiene quando si imita formalmente un prodotto, evocandone le caratteristiche, senza utilizzarne gli ingredienti e senza riprodurne i processi produttivi e le proprietà considerate “autentiche”, che esiste nello stesso made in Italy e non andrebbe sottovalutato. Esso andrebbe corretto poiché, a sua volta, è la base per un “effetto farfalla”, per molti versi negativo, e per combatterlo servirebbe solo studiare-innovare-produrre secondo quelle regole che, a medio termine, saranno le uniche ad essere utilizzare per la vita sul pianeta.
Qui iniziano le dolenti note perché l’attuale propensione all’innovazione delle imprese italiane è limitata: riguarda solo un terzo di esse e noi pensiamo che per chi voglia essere all’avanguardia nel mondo servirebbe avere il 75% delle imprese con tale propensione. Le imprese italiane soffrono di mancata evoluzione digitale e di livelli di sicurezza e di effetti inquinanti spesso al di sotto degli standard comunitari (penso, ad esempio, al settore delle produzioni zootecniche nella Valle padana). Inoltre, nel sistema produttivo italiano esiste una condizione particolare, la diffusione delle piccole/piccolissime imprese, che è la sua croce e delizia: rappresenta il suo limite nel confrontarsi con i costi crescenti e, per contro, la sua grande possibilità per diventare l’esempio per produzioni sostenibili ed economia circolare. Perché solo in sede locale si possono trovare le basi della circolarità a basso impatto ambientale e nel territorio italiano, con una grande diffusione di condizioni specifiche di clima, di territorio, di distribuzione sociale e di organizzazione di comunità, esistono le condizioni per una grande sperimentazione dei metodi innovativi, circolari e sostenibili in un’economia avanzata complessa.
Queste condizioni riguardano non solo le imprese ma anche i consumatori, considerati a torto sino ad oggi elementi secondari, e li riguarda sia direttamente con le loro associazioni, consultate raramente e senza alcuna obbligatorietà, attraverso il Consiglio Nazionale Consumatori Utenti (CNCU), sia indirettamente attraverso il punto di vista delle associazioni ambientaliste, paradossalmente, esse stesse poco propense a svolgere valutazioni sui consumi e sulla qualità dei prodotti e anche loro poco interessate a collaborare strettamente con le altre associazioni consumeriste. Perché l’ambiente non è cosa diversa dal consumo e perché il consumo incide sull’ambiente e solo partendo dai consumi locali è possibile capire cosa può stabilizzare il basso impatto ambientale. Le funzioni di controllo e certificazione in cui già ora i consumatori svolgono un ruolo sono una parte essenziale di questo percorso.
Per esperienza personale, non vedo futuro in produzioni che siano rivolte al mercato di esportazione senza una adeguata diffusione nel mercato locale e nazionale, principio che viene negato dalla propensione di molte analisi economiche, volte a privilegiare l’export. I Paesi che nel mondo esportano molto, incuranti delle condizioni del mercato interno, non sono certo tra i più stabili economicamente, né i loro abitanti sono tra i più benestanti. Esistono, poi, alcuni fatti poco valutati: 1) non si può produrre in modo “originale”, in un territorio (parmigiano) o attraverso un processo produttivo (pizza), pensando di venderlo a tutti in tutto il mondo, per evidente limitazione delle risorse,, quindi per diffonderne l’uso il sounding è necessario; 2) non possono esistere grandi marchi e solide aziende italiane diffuse nel pianeta senza avere una sorta di auto-sounding (ad esempio, le aziende italiane che vendono olio o pomodori pelati, o dolciumi nel mondo non lo potrebbero certo fare solo con materia prima italiana, senza parlare di prodotti dell’abbigliamento o calzature).
Esistono condizioni che aprono la strada a un futuro di grandi prospettive: ad esempio, la riconversione energetica con l’aumento di energia rinnovabile prodotta da parte dei piccoli produttori/consumatori, di grande aiuto per le produzioni locali di alta qualità; il sistema trasparente di controllo in cui i consumatori abbiano necessariamente il ruolo di certificatori. Ma esse si scontrano con una realtà del mercato italiano peggiorata negli ultimi decenni: il prodotto made in Italy in Italia non è a disposizione di tutti e la sua penetrazione nel mercato italiano si è ridotta nel tempo a vantaggio di commodity che, è banale sottolinearlo, peggiorano le condizioni per la transizione ecologica a causa delle tecnologie utilizzate per la loro produzione, per i trasporti che hanno un peso eccessivo, per la deresponsabilizzazione sociale che ne deriva. Il perché è facilmente intuibile: la massa dei consumatori italiani acquista sempre più prodotti a basso costo, gli unici che può permettersi perché impoveritasi nell’ultimo ventennio. Migliorare le condizioni sociali ed economiche della massa degli abitanti dell’Italia è una condizione preliminare per lo sviluppo del prodotto nazionale.
La proposta di regolamentazione comunitaria vorrebbe offrire una base sostenibile ai consumi di massa, ma come inserire le nostre produzioni in tale prospettiva? Innanzitutto, dovremmo evitare alcuni luoghi comuni che corrono il rischio di condurre il made in Italy in un vicolo cieco, assumendo posizioni contrarie ad un’evoluzione necessaria e improrogabile (posizioni spesso mascherate dalla richiesta governativa di “prendere tempo” per le decisioni). Inoltre, la definizione di “italiano” deriva spesso dalla realizzazione in Italia delle ultime due fasi della lavorazione e viene data anche a prodotti ottenuti in loco da ingredienti di varia provenienza. Ad esempio, in situazioni simili a quelle della diffusione del “morbo della mucca pazza” sarebbe difficile sostenere l’originalità e la minore possibilità di contaminazione di alcune produzioni zootecniche, se l’alimentazione di base fosse costituita dagli stessi alimenti per animali consumati in altri Paesi.
La discussione nella UE sulle auto elettriche rappresenta un esempio negativo che non andrebbe ripetuto, anche perché la fine di un prodotto made in Italy (l’automobile utilitaria), di grande prospettiva in un mercato elettrico, deriva in questo caso dalla fine di una società nazionale diventata parte di minoranza nell’organizzazione di una holding a prevalenza “francese”, grazie alle scelte sbagliate dei decenni passati contro la conversione all’elettrico. Se vogliamo essere originali e credibili nella società sostenibile, si dovrebbero creare rapidamente le basi per la produzione e consumo locale di prodotti di alta qualità: come pensiamo di essere credibili se a casa nostra consumiamo altro e vediamo passare sotto il nostro naso le produzioni migliori a vantaggio dei mercati esteri più ricchi?
La strategia per far diventare il made in Italy un brand culturalmente egemone a livello comunitario implica alcuni cambiamenti nel sistema d’impresa partendo dalla constatazione che i prodotti a prezzo contenuto sono i più diffusi (e convenienti) per i consumatori comunitari, sia perché una larga parte dei 27 Paesi della UE ha redditi contenuti e produzioni meno articolate delle nostre, sia perché, per storia e tradizione, molti di loro non hanno consuetudine con prodotti italiani, considerati “di lusso”. È fondamentale che, ad esempio, le produzioni a basso impatto – quelle biologiche o quelle prodotte con fonti rinnovabili, o quelle che adoperano materie seconde – non siano messe in concorrenza con produzioni e marchi locali affermati (DOP, IGP, ecc.); trovare procedimenti e prassi di lavorazione che uniscano questi due aspetti della qualità è l’unica soluzione praticabile per una riconversione produttiva non solo apparente e per trasformare produzioni di nicchia in sistemi produttivi egemoni.
Ma, ancora una volta, la credibilità di queste operazioni risiede nella maggiore cooperazione locale tra gli attori del cambiamento e dell’innovazione, di cui i consumatori sono parte essenziale e tramite organizzativo.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti