STRASBURGO – La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato la Svizzera in una sentenza in cui per la prima volta lega la tutela dei diritti umani al rispetto degli obblighi sul clima. L’associazione di anziane donne che ha fatto causa alla Svizzera ha vinto in parte il ricorso. La Cedu, escludendo la violazione dell’articolo 2 dalla sentenza, ha condannato lo Stato elvetico per aver violato l’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ovvero il diritto al rispetto della vita privata e familiare, in quanto non ha preso sufficienti misure per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici (ANSA).
Mi sono preso il giusto tempo prima di commentare l’importante sentenza della Corte di Strasburgo, che è del 9 aprile, perché ho atteso che venisse pubblicata e, come dovrebbe accadere sempre, le sentenze è sempre opportuno leggerle in forma integrale (e la trovate cliccando qui).
I fatti sono ormai noti: il Verein KlimaSeniorinnen Schweiz, un’associazione di diritto svizzero costituita per promuovere l’attuazione di un’efficace protezione del clima a nome dei suoi membri, composta da più di 2.000 donne anziane (un terzo delle quali ha più di 75 anni, la più anziana delle quattro ottuagenarie, nata nel 1931, è morta durante il procedimento davanti alla Corte) lamentava problemi di salute che si aggravavano durante le ondate di calore. Esacerbati per le ondate di calore, che incidono significativamente sulla vita delle associate, sulle loro condizioni di vita e sul loro benessere, nel 2016 aveva presentato una richiesta al Consiglio federale e alle altre autorità svizzere per l’ambiente e l’energia, evidenziando varie carenze nell’ambito della protezione del clima e chiedendo una decisione in merito alle azioni da intraprendere. Aveva inoltre chiesto alle autorità di adottare le misure necessarie per raggiungere l’obiettivo del 2030 fissato dall’accordo sul clima di Parigi nel 2015. Le autorità svizzere dichiaravano la richiesta irricevibile, ritenendo che i richiedenti stessero perseguendo interessi pubblici generali e non potessero quindi essere considerati vittime. Inoltre l’obiettivo generale della richiesta delle ricorrenti doveva intendersi quella di ridurre le emissioni di CO2 in tutto il mondo e non solo nei loro paesi e nelle loro immediate vicinanze. Nel 2020 il Tribunale federale ha respinto il ricorso delle ricorrenti, ritenendo che le donne di età superiore ai 75 anni non fossero l’unico gruppo di popolazione interessato dai cambiamenti climatici e che i loro diritti non fossero stati colpiti in modo diverso da quelli della popolazione in generale. E nel novembre 2020 le anziane signore hanno fatto ricorso alla Corte Europea per i Diritti Umani, lamentando che le diverse inadempienze da parte delle autorità svizzere nel mitigare gli effetti del cambiamento climatico – e in particolare gli effetti del riscaldamento globale – avrebbero danneggiato la salute dei cittadini. L’udienza pubblica si è tenuta il 29 marzo 2023 (lo avevamo scritto qui) e ha portato alla sentenza qui in commento.
Qual è l’importanza di questa pronuncia, che non esito a definire “storica”? Innanzitutto è in assoluto la prima volta che il “l’azione per il contrasto climatico” viene definito come “diritto dell’umanità”. È un concetto sul quale mi sono soffermato più volte (ad es. qui e qui) e il riconoscimento viene dalla più alta autorità in materia, la Corte di Strasburgo che è l’unico soggetto abilitato ad interpretare e a valutare l’applicazione dei principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU, qui), trattato internazionale adottato nel 1950 ed entrato in vigore nel 1953. Peraltro, la decisione è stata assunta non da una Camera della Corte (l’equivalente di una sezione della nostra Cassazione), ma dalla Grande Camera (l’equivalente delle Sezioni Riunite della Cassazione) composta da ben 17 giudici designati da Irlanda (il Presidente), Lussemburgo, Slovenia, Austria, Andorra, Norvegia, Finlandia, Macedonia settentrionale, Albania, Italia (Raffaele Sabato, magistrato italiano, giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo dal 2019), Malta, Germania, Estonia, Portogallo, Francia, Svizzera, Regno Unito. Solo il giudice di quest’ultimo paese ha espresso un parere in parte concordante e in parte dissenziente.
la Corte non poteva ignorare nel suo ruolo di organo giudiziario incaricato di far rispettare i diritti umani e ha tenuto ben presente che l’inadeguatezza dell’azione degli Stati nella lotta ai cambiamenti climatici aggrava i rischi di conseguenze dannose con le conseguenti minacce per il godimento dei diritti umani, minacce già riconosciute dai governi di tutto il mondo e confermate dalle conoscenze scientifiche. Ha ritenuto un dato di fatto che vi siano indicazioni sufficientemente affidabili che il cambiamento climatico di origine antropica esiste, che rappresenta una grave minaccia attuale e futura per il godimento dei diritti umani garantiti dalla Convenzione, che gli Stati sono consapevoli di ciò e sarebbero in grado di adottare misure per affrontarlo efficacemente. I rischi rilevanti previsti sarebbero inferiori, per la Grande Camera del CEDU, se l’aumento della temperatura fosse limitato a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali e se si intervenisse con urgenza. Ha quindi rilevato che gli attuali sforzi di mitigazione a livello globale non sono sufficienti per raggiungere tale obiettivo. Osservando che, mentre gli obblighi giuridici che derivano agli Stati dalla Convenzione si estendono a quegli individui attualmente in vita che, in un determinato momento, ricadono sotto la giurisdizione di una determinata parte contraente, è chiaro che le future generazioni sopporteranno probabilmente un peso sempre più grave delle conseguenze delle attuali mancanze e omissioni nella lotta al cambiamento climatico.
Veniamo, in dettaglio, ai principi che sono ricavabili dalla sentenza.
Per quanto riguarda la legittimazione della Verein KlimaSeniorinnen Schweiz, la Corte ha ritenuto che la particolarità del cambiamento climatico come preoccupazione comune dell’umanità e la necessità di promuovere la ripartizione degli oneri tra le generazioni, rendeva opportuno ammettere il ricorso all’azione legale da parte della associazione in tale contesto. L’esclusione dei ricorsi di interesse pubblico generale (actio popularis) ai sensi della Convenzione richiede, tuttavia, che, affinché l’associazione richiedente abbia il diritto di agire per conto di singoli e di presentare un ricorso per conto di singoli individui per l’asserita incapacità di uno Stato di adottare misure adeguate per proteggerli dagli effetti nocivi del cambiamento climatico sulla loro vita e sulla loro salute, è necessario che l’associazione richiedente abbia il diritto di agire per conto dei singoli e deve rispettare una serie di condizioni delineate nella sentenza. Il diritto di un’associazione ad agire per conto dei suoi membri o di altri individui interessati all’interno della giurisdizione non è soggetto a un requisito separato, ovvero che coloro per conto dei quali è stato intentato la causa, soddisfino a loro volta i requisiti dello status di vittima per i singoli individui. Nelle circostanze del caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’associazione ricorrente soddisfacesse i criteri pertinenti e avesse la necessaria legittimazione ad agire.
La Corte è poi passata a valutare l’applicabilità al ricorso, degli articoli 2 e 8 della Convenzione e, escludendo l’applicabilità, per mancanza di correlazione diretta, dell’art.2 (Diritto alla vita), ha ritenuto che l’articolo 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) fosse invece applicabile al reclamo.
La Corte ha rilevato che l’articolo 8 della Convenzione prevede il diritto degli individui a un’effettiva protezione da parte delle autorità statali dai gravi effetti negativi del cambiamento climatico sulla loro vita, salute, benessere e qualità della vita stessa. In questo contesto, il principale dovere di uno Stato contraente -affermano i giudici- è quello di adottare e applicare in pratica, regolamenti e misure in grado di mitigare gli effetti attuali e potenzialmente irreversibili dei cambiamenti climatici e quelli che si verificheranno in futuro.
Questo obbligo deriva dalla relazione causale tra il godimento dei diritti della Convenzione e il fatto che l’oggetto e lo scopo della Convenzione, in quanto strumento di protezione dei diritti umani, richiede che le sue disposizioni debbano essere interpretate come strumento di protezione dei diritti umani, richiedendo che le sue disposizioni siano interpretate e applicate in modo da garantire diritti concreti ed effettivi.
La Corte ha sottolineato che è la sola competente a interpretare le disposizioni della Convenzione e dei suoi Protocolli. Tuttavia, ha osservato che, in linea con gli impegni internazionali assunti dagli Stati membri, in particolare nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e dell’accordo sul clima di Parigi del 2015 e alla luce dei convincenti pareri scientifici forniti, in particolare, dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici), sono gli Stati a dover mettere in atto le necessarie misure volte a prevenire l’aumento delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera terrestre e l’innalzamento della temperatura media globale, al di là dei livelli in grado di produrre effetti negativi gravi e irreversibili sul clima.
Il rispetto effettivo di tali diritti richiede che gli Stati intraprendano misure per ridurre i loro livelli di emissioni di gas serra, al fine di raggiungere la neutralità netta, in linea di principio, entro i prossimi tre decenni. A questo proposito, gli Stati devono stabilire obiettivi e scadenze pertinenti, che devono essere parte integrante del quadro normativo nazionale, come base per la mitigazione delle emissioni. E in relazione alla Svizzera, la Corte ha concluso che ci sono state lacune critiche nel processo di creazione del quadro normativo nazionale, tra cui l’incapacità delle autorità svizzere di quantificare attraverso un bilancio del carbonio o in altro modo, le limitazioni nazionali alle emissioni di gas a effetto serra. Inoltre, la Corte ha osservato che la Svizzera non aveva mai raggiunto gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra fissati in passato.
Le autorità svizzere non hanno agito in tempo e in modo appropriato per elaborare e attuare la legislazione e le misure pertinenti, in conformità con i loro obiettivi positivi per attuare la legislazione e le misure pertinenti, in conformità con i loro obblighi positivi, rilevanti nel contesto del cambiamento climatico ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione. La Confederazione Svizzera aveva quindi oltrepassato il suo margine di discrezionalità (“margine di apprezzamento“) e non aveva rispettato i suoi doveri in questo ambito.
La conclusione cui è giunta la Corte è stata quindi nell’affermazione dell’esistenza di una violazione dell’articolo 8 della Convenzione. Da qui la condanna ad adottare misure adeguate e idonee a dare efficacemente esecuzione alla sentenza con l’aggiunta dell’ordine di pagamento all’associazione ricorrente di 80.000 euro a titolo di costi e spese.
La sentenza non è appellabile o riformabile in alcuna sede.
Secondo il parere parzialmente dissenziente del solo (su 17) giudice britannico Tim Eicke, pur “riconoscendo chiaramente la natura o la grandezza dei rischi e delle sfide poste dai cambiamenti climatici antropogenici e dell’urgente necessità di affrontarli (…) si sta in effetti dando una (falsa) speranza che il contenzioso e i tribunali possano fornire “la risposta” senza che vi sia, in effetti, alcuna prospettiva di un contenzioso (specialmente davanti a questa Corte) che acceleri l’adozione delle misure necessarie alla lotta contro il cambiamento climatico antropico”. Ciò che ha preoccupato il giudice britannico è “il rischio significativo di essere coinvolti in controversie giudiziarie su qualsiasi regolamento e misura e su come essi saranno stati applicati nella pratica” dai vari Stati, mostrando un certo scetticismo sui “processi lunghi e incerti di adeguamento alle sentenze”.
E in effetti quello che il giudice britannico rappresenta è forse proprio il principale punto di forza che caratterizza la sentenza: la potenzialità che essa esprime di valere come caso-pilota che apra la strada ad una molteplicità di casi di climate litigation. E chissà, invece e allora, che essa non sortisca una sorta di “effetto deterrenza, al contrario” rimuovendo quella situazione di immobilismo che ha caratterizzato la produzione normativa di molti Stati.
Rileggete ciò che è scritto in sentenza e confrontate ogni passaggio sostituendo alla Svizzera, l’Italia (che non ha ancora una legge sul clima).
Nel paese delle mille sigle, dei mille sindacati e associazioni, chissà che anche da noi qualcuno non abbia un sussulto per agire veramente a tutela dei diritti dei nostri cittadini e muoversi contro “l’inazione climatica”.
Giuseppe d’Ippolito