Durante l’Assemblea Generale di Confindustria del 18 settembre scorso, il presidente Emanuele Orsini ha espresso preoccupazioni riguardo al Green Deal europeo. Orsini ha sottolineato che, sebbene sia necessario affrontare la transizione energetica e ambientale, essa non può avvenire a discapito della competitività industriale italiana. Ha criticato in particolare l’impatto negativo che la decarbonizzazione forzata sta avendo su settori chiave, come l’automotive, che rischia di essere “regalato alla Cina”, e il packaging, che ha visto i propri sforzi vanificati da cambiamenti normativi improvvisi. Inoltre, ha ribadito che la sostenibilità non può tradursi in deindustrializzazione, come dimostrato dagli investimenti significativi fatti da settori come la ceramica per ridurre le emissioni senza ottenere il giusto riconoscimento. Orsini ha richiesto un approccio più equilibrato, che concili la transizione ecologica con la crescita industriale, e ha proposto un maggiore dialogo tra industria, sindacati e governo per trovare soluzioni comuni. Infine, ha evidenziato l’importanza di una politica energetica strategica, sostenendo il ritorno al nucleare come soluzione per ridurre la dipendenza energetica e i costi elevati.

 

Proprio mentre il presidente Orsini dichiarava guerra aperta al Green Deal durante l’Assemblea Generale di Confindustria presso il Centro Congressi Roma Eventi, in Emilia-Romagna e nelle Marche forti alluvioni causavano gravi inondazioni in diverse aree della regione, con migliaia di sfollati, danni a infrastrutture e abitazioni e con un impatto notevole sulle comunità locali che richiedevano interventi di emergenza e misure di soccorso da parte delle autorità. È la terza volta, non nell’ultimo secolo, non nell’ultimo millennio, ma solo in 16 mesi dall’ultima volta.

Orsini proseguiva nella sua difesa dell’automotive endotermico (a combustione interna) italiano sorvolando sul fatto che, globalmente, il settore dei trasporti contribuisce per circa il 24% delle emissioni di CO₂ legate all’energia, con i veicoli a combustione interna che sono responsabili di circa il 30% delle emissioni globali di ossidi di azoto (NOx), che sono una causa principale di smog e inquinamento atmosferico. In Italia, questi veicoli del passato contribuiscono a circa il 40% delle emissioni di NOx e sono una fonte significativa di particolato fine (PM10 e PM2.5), che incide sulla qualità dell’aria nelle aree urbane. In molte città italiane, oltre l‘80% delle persone che vi vivono è esposto a livelli di inquinamento atmosferico che superano i limiti (concentrazioni di NOx e particolato fine) stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con conseguenze evidenti sulla salute pubblica.

Se vi avesse riflettuto, avrebbe probabilmente convenuto che la decarbonizzazione è fondamentale nella lotta contro i cambiamenti climatici mentre l’uso di veicoli con motori endotermici contribuisce in modo significativo all’inquinamento globale e locale e che ridurre le emissioni di anidride carbonica (CO₂) e altri gas serra è cruciale per limitare l’aumento delle temperature globali e mitigare gli effetti negativi del cambiamento climatico.
Ma il capo degli industriali italiani ha preferito una posizione di retroguardia e a difesa dello status quo, piuttosto che sollecitare i propri iscritti a sfruttare le numerose opportunità che il Green Deal offre al settore industriale italiano.

In primo luogo, l’accesso alle notevoli risorse economiche attraverso il Just Transition Fund e altri fondi di supporto per la transizione energetica e ambientale. Questi fondi sono previsti per permettere alle aziende italiane di innovare, sviluppare nuove tecnologie sostenibili e migliorare la competitività sul mercato internazionale. Le politiche del Green Deal incentivano investimenti in tecnologie per l’efficienza energetica e la riduzione delle emissioni, portando benefici sia in termini di risparmio energetico che di sostenibilità. Settori come quello dell’automotive e delle energie rinnovabili possono trarne grande vantaggio.
La spinta verso la sostenibilità, poi, porta alla creazione di nuovi modelli di business, favorendo l’innovazione. L’Italia, con il suo forte settore industriale e manifatturiero, ha l’opportunità di sviluppare soluzioni innovative e sostenibili, ottenendo un vantaggio competitivo, creando nuovi  posti di lavoro e avendo l’opportunità di accedere a nuovi mercati, quindi rappresentando un’opportunità per l’industria italiana di modernizzarsi e innovare in modo sostenibile.

Mi domando quando i decisori politici e gli opinion leader nostrani impareranno che la transizione ecologica in generale, e quella energetica in particolare, sono inevitabili per limitare il riscaldamento globale e attenuare gli effetti del cambiamento climatico. Quando capiranno che le fonti di energia fossile, come il carbone e il petrolio, hanno un impatto negativo significativo sull’ambiente, contribuendo all’inquinamento e al degrado ecologico; che le risorse fossili sono limitate e distribuite in modo diseguale a livello globale; che l’aumento della consapevolezza pubblica riguardo agli impatti ambientali e alla sostenibilità ha portato a una maggiore (e diversa) domanda di soluzioni energetiche più pulite e sostenibili?

Non senza considerare che l’Italia, pur avendo un’influenza, che taluni ritengono  significativa, in ambito europeo e globale, non ha il potere di rallentare sostanzialmente la transizione energetica a livello mondiale da sola. Gli organismi internazionali, dall’Onu all’Ue, hanno obiettivi concreti di riduzione delle emissioni e promozione delle energie rinnovabili e l’Italia deve allinearsi a questi obiettivi per non rischiare l’isolamento politico e sociale. Rallentare la transizione energetica a livello globale sarebbe difficile e avrebbe conseguenze ambientali, economiche e diplomatiche significative. Un rallentamento potrebbe compromettere gli obiettivi globali di riduzione delle emissioni e sostenibilità, rendendo più difficile raggiungere gli accordi internazionali sul clima, come l’Accordo di Parigi.

Secondo l’European Automobile Manufacturers Association, in Europa nel 2024 la diffusione dei veicoli a alimentazione alternativa (elettrica o ibrida), vede ai primi tre posti la Norvegia con all’80% (60% elettriche + 20% ibride); la Svezia con il 45% (15% elettriche + 30% ibride) e i Paesi Bassi con il 45% (20% elettriche + 25% ibride). L’Italia, quarto paese più industrializzato in Europa (Istat), è solo al sesto posto, dopo Germania (37%) e Francia (32%) e con Austria e Regno Unito, tutte circa al 30% (10% elettriche + 20% ibride). Agli ultimi tre posti l’Ungheria, con l’8% (3% elettriche + 5% ibride); la Slovacchia, con il 7% (3% elettriche + 4% ibride) e la Romania con il 6% (2% elettriche + 4% ibride). Curiosamente i primi posti della classifica sono occupati dagli stessi paesi che, secondo la International Renewable Energy Agency (IRENA), hanno la maggiore percentuale di rinnovabili nel consumo finale di energia.

I paesi che rallentano la transizione rischiano di perdere terreno nella corsa per l’innovazione e le tecnologie verdi, con conseguenze negative per l’economia e l’occupazione nel lungo termine. I principali attori globali e molte nazioni stanno già intraprendendo azioni significative verso la sostenibilità. Rallentare la transizione potrebbe incontrare resistenza da parte di altri paesi e imprese che vedono il passaggio alle energie rinnovabili come un’opportunità economica. È questa la crescita industriale che chiedono gli imprenditori italiani del ventunesimo secolo?

Solo se non si riuscirà a completare la transizione energetica in modo efficiente, l’industria italiana potrebbe perdere competitività rispetto ai Paesi che si muovono più rapidamente nell’adozione di tecnologie sostenibili, mentre capiterà se si continuerà a difendere le rendite di posizione e i vantaggi acquisiti nel passato.
Difendere il vecchio, il tradizionale, l’obsoleto, porterà, forse, a incrementare consensi e simpatie per i prossimi 10-20 anni, ma poi? Sarebbe una scelta miope che non considera affatto gli interessi (ambientali, economici e sociali) delle generazioni che verranno e men che meno il futuro dell’umanità.

Giuseppe d’Ippolito