Il greenwashing è un fenomeno in cui aziende, organizzazioni o enti pubblici promuovono un’immagine ingannevole di essere ecologicamente sostenibili o ambientalmente responsabili, quando in realtà i loro sforzi in materia di sostenibilità sono minimi o del tutto assenti. Il termine deriva dalla fusione di “green” (verde, riferito all’ambiente) e “whitewashing” (ripulire, imbiancare una reputazione). Si tratta di una pratica diffusa nel marketing, dove vengono messi in evidenza aspetti ambientali di prodotti, servizi o iniziative per attrarre consumatori più attenti alla sostenibilità, anche se tali affermazioni non sono supportate da azioni concrete. Negli ultimi anni, con l’aumento della consapevolezza pubblica sui cambiamenti climatici e sull’importanza della sostenibilità, il greenwashing è diventato sempre più frequente. Il problema è che questa pratica mina la fiducia dei consumatori, confonde le vere iniziative sostenibili con quelle false e rallenta i progressi verso un futuro più ecologico. Qui di seguito riportiamo un caso concreto e recente sospettato di questa pratica e un decalogo per difenderci dal greenwashing.

 

Di greenwashing ho scritto più volte e spesso sono pervaso dalla sensazione di tentare di svuotare il mare con un cucchiaino. Ma non demordo, convinto come sono che solo con la consapevolezza nelle scelte dei cittadini si costringerà il mercato a cambiare rotta e ad allinearsi agli obiettivi di una società rispettosa dell’ambiente e degli ecosistemi, della solidarietà, dell’equità. Intendiamoci: non sono un seguace delle teorie di Adam Smith, secondo cui in un mercato libero, i singoli individui, agendo nel proprio interesse personale, promuovono involontariamente il bene comune. Con  la concorrenza e l’interazione tra domanda e offerta che determinano l’allocazione ottimale delle risorse senza la necessità di interventi esterni da parte del governo da tradursi in una minima regolamentazione statale. Sarebbe bello se fosse realmente così. La prova dei fatti dimostra, invece, che l’idea che i mercati si regolino automaticamente, è fallace e si evidenzia sempre più la necessità di interventi esterni per correggere le disuguaglianze, inefficienze o fallimenti del mercato. Anzi, bisogna rendere più funzionante e puntuale il sistema dei controlli e delle sanzioni che puntellano il complesso delle regole perché chi tenta di aggirarle lo fa in modo sempre più subdolo e insidioso. Sono ancora molte le aziende che utilizzano termini vaghi come “naturale“, “ecologico” o “verde“, che possono sembrare positivi ma che non hanno una definizione precisa. Il greenwashing rimane una pratica preoccupante, poiché può compromettere seriamente gli sforzi globali per affrontare i cambiamenti climatici e promuovere la sostenibilità. I consumatori devono essere sempre più informati e critici nei confronti delle affermazioni aziendali riguardanti la sostenibilità e le aziende devono rendere conto delle loro azioni. La trasparenza e la responsabilità sono essenziali per costruire un futuro più verde e sostenibile.

Sono noti i casi celebri che hanno coinvolto, per la loro pubblicità fuorviante, la Coca-Cola, la Nestlé, l’Eni e numerose altre grandi aziende. Ma oggi voglio proporvi un caso di pubblicità nei quali l’insidia è possibile o probabile, comunque nascosta e di non facile percezione anche per un consumatore attento, ma che rinuncia agli approfondimenti del caso.
Da poco tempo alcune grandi catene di negozi (es. Esselunga, Coop, Ikea) hanno introdotto l’utilizzo dei cosiddetti  “scontrini blu” che si dovrebbero caratterizzare dal non essere formati con carta termica o chimica e che quindi potrebbero essere smaltiti insieme con la carta. È noto (o dovrebbe esserlo) che gli scontrini abituali, sono difficili da riciclare a causa dei composti chimici utilizzati nella carta termica tradizionale e quindi andrebbero smaltiti tra i materiali non compostabili e non nella carta. Quello che ho avuto modo di esaminare (inviatomi da un nostro solerte lettore), reca in bella evidenza, oltre il brand che l’utilizza (quindi si tratta di pubblicità a tutti gli effetti) anche la dicitura “non essendo carta termica, sono riciclabili nella carta” (foto). Ebbene, gli scontrini blu senza bisfenolo, anche chiamati “scontrini BPA-free o BPS-free”, sono una tipologia di scontrini effettivamente più ecologica rispetto agli scontrini tradizionali. Questi scontrini non dovrebbero contenere bisfenolo A (BPA) o bisfenolo S (BPS), che sono sostanze chimiche utilizzate comunemente negli scontrini termici tradizionali e associate a rischi per la salute. La differenza tra carta termica tradizionale e scontrini senza bisfenolo deriva -appunto- dall’utilizzo, nei primi, di una sostanza chimica (spesso BPA o BPS) come agente reattivo sullo strato superficiale della carta che scurisce quando viene esposto al calore, permettendo la stampa senza inchiostro. Questa sostanza chimica dovrebbe essere assente negli “scontrini blu”.  Ma questo è sufficiente ad affermare che essi non sono carta termica e possono essere riciclati con la carta? Vediamo in dettaglio.

Iniziamo col dire che non tutti gli “scontrini blu” non sono “carta termica”. Molti scontrini blu possano essere ancora realizzati con carta termica, che utilizza sempre una sostanza chimica per reagire al calore e produrre il testo (per es. alcune carte termiche utilizzano composti fenolici alternativi, come il Pergafast 201), e poi esistono anche scontrini blu non termici, che impiegano tecnologie diverse, come inchiostri a base d’acqua o altre forme di stampa che non si basano sul calore. Quindi non tutti gli scontrini blu possono essere riciclati con la carta. Anche se questi scontrini possono sembrare più sicuri e meno dannosi per l’ambiente, è importante verificare se la carta può essere effettivamente riciclata con la carta comune, poiché le politiche di riciclo possono variare. Anche se alcuni scontrini blu possono essere riciclabili, le direttive di riciclaggio dipendono dalle politiche locali. In molte località, gli scontrini, anche quelli blu, vengono comunque smaltiti nell’indifferenziato a causa della presenza di sostanze chimiche o difficoltà nel trattamento del materiale.

 

È ovvio, però, che non si può richiedere al consumatore medio di conoscere in dettaglio le differenze nella composizione della carta degli scontrini. Cosa ci deve aiutare, allora? Innanzitutto, l’azienda, su cui incombono obblighi informativi ben precisi. L’impone la legge italiana che richiede di fornire le prove della veridicità delle affermazioni pubblicitarie. E quando entrerà in vigore in Italia la direttiva 2024/825 sul greenwashing (pubblicata il 6 marzo 2024 e da recepire entro il 27 settembre 2026) queste prove dovranno essere disponibili e verificabili dal consumatore. E tale obbligo sarà ancora più stringente e forse addirittura soggetto ad approvazione preventiva, con la prossima direttiva dell’Unione Europea sui “green claims“, approvata in fase di proposta a marzo 2023 e ancora in fase di negoziato con gli stati membri. Per adesso, i consumatori che non vogliono sollecitare le autorità di vigilanza (in Italia, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) per verificare le affermazioni pubblicitarie, possono fare affidamento sulle “certificazioni” di prodotto che dovrebbero garantire la veridicità delle affermazioni, a condizione che siano rilasciate da organismi autorevoli, indipendenti e competenti. Ad esempio, nel caso che stiamo esaminando, si fa riferimento ad una certificazione rilasciata da FSC. Ma la certificazione FSC (Forest Stewardship Council) non garantisce direttamente l’assenza di sostanze chimiche nella carta. La certificazione FSC si concentra principalmente sulla gestione sostenibile delle foreste, assicurando che il legno e i prodotti derivati provengano da foreste gestite in maniera responsabile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Tuttavia, non riguarda nello specifico i processi chimici utilizzati nella trasformazione del legno in carta, né il controllo delle sostanze chimiche utilizzate nel processo di produzione della carta stessa. Non è quindi utile a sostenere l’affermazione che quel determinato scontrino blu, non è carta termica e che può essere riciclato con la carta.

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In conclusione, l’esame di questo caso specifico mi consente di auspicare che le aziende qui citate e le altre che utilizzano gli scontrini blu, diano un esempio di trasparenza e chiariscano l’effettiva composizione dei loro scontrini; forniscano dettagli sulle certificazioni esposte e sciolgano tutti i dubbi che quest’intervento pone. Nell’attesa, posso consigliare ai consumatori che vogliono difendersi dalle pubblicità che praticano greenwashing, specie se in modo subdolo e insidioso, di avere un approccio strategico e informato. Ecco un piccolo decalogo di alcune tecniche efficaci.

  1. Educazione sui termini di marketing: comprendere il linguaggio utilizzato nelle pubblicità è fondamentale. Termini come “eco“, “naturale” o “green” possono essere usati in modo vago o ingannevole. Informarsi su cosa significano realmente e cercare definizioni chiare e regolamentate.
  2. Ricerca approfondita: prima di effettuare acquisti, fare ricerche sui marchi. Controllare il loro sito web, le relazioni annuali sulla sostenibilità e le recensioni di terzi. Utilizzare strumenti online che offrono valutazioni sui marchi basate su criteri di sostenibilità.
  3. Verifica delle certificazioni: assicurarsi che i prodotti siano certificati da enti indipendenti riconosciuti. Le certificazioni valide possono dare fiducia alle affermazioni ecologiche. Fare attenzione a marchi senza alcuna certificazione o con certificazioni poco conosciute.
  4. Verifica delle fonti e dei dati: cercare informazioni esterne sulle aziende e i loro prodotti. Fonti come rapporti di sostenibilità, articoli di indagine e recensioni di esperti possono fornire un contesto migliore rispetto alle affermazioni pubblicitarie. Utilizzare le numerose piattaforme esistenti per ottenere informazioni dettagliate sui comportamenti delle aziende.
  5. Analisi critica delle affermazioni: se una pubblicità fa affermazioni forti sulla sostenibilità, cercare prove a supporto. Ad esempio, se un prodotto è definito “eco-compatibile”, controllare se ci sono dati specifici che dimostrano il suo impatto ambientale positivo.
  6. Interazione con le aziende: non esitare a contattare le aziende per chiedere chiarimenti su dichiarazioni ambigue. Le aziende affidabili dovrebbero essere in grado di fornire informazioni dettagliate sulle loro pratiche sostenibili.
  7. Attività comune: impegnarsi in iniziative locali o online che promuovono la trasparenza aziendale e la responsabilità. Supportare campagne contro il greenwashing e sensibilizzare altre persone sui rischi è fondamentale per costruire una comunità più informata.
  8. Informarsi sulle politiche ambientali: essere a conoscenza delle politiche ambientali e dei regolamenti nella propria area. Le normative, come quelle stabilite dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e dall’Unione Europea, possono proteggere i consumatori dalle pratiche ingannevoli.
  9. Critica delle pratiche di marketing: essere pronti a segnalare e criticare le aziende che praticano greenwashing, utilizzando social media e recensioni online per esprimere il tuo disappunto. Questo può esercitare pressione sulle aziende affinché migliorino le loro pratiche.
  10. Sostenere aziende veramente sostenibili: infine, cercare di fare acquisti presso aziende che dimostrano un impegno autentico verso la sostenibilità, anche se ciò significa pagare di più. La nostra scelta può influenzare il mercato e incoraggiare più aziende a operare responsabilmente

Adottando queste pratiche, possiamo migliorare la nostra capacità di riconoscere e difenderci dalle pubblicità che fanno greenwashing, specie se in modo subdolo e insidioso.

Giuseppe d’Ippolito