La COP29 che si tiene a Baku, Azerbaijan, dall’11 al 22 novembre 2024, dovrebbe rappresentare un importante punto di confronto per l’avanzamento degli impegni internazionali sul cambiamento climatico. In questa conferenza, i Paesi firmatari dell’Accordo di Parigi e del Protocollo di Kyoto discutono l’attuazione delle politiche necessarie per limitare l’aumento della temperatura globale, con particolare attenzione a trasparenza, finanziamenti per il clima, e obiettivi di riduzione delle emissioni. Uno dei punti chiave di COP29 è l’adozione del nuovo obiettivo collettivo di finanziamento, il cosiddetto “New Collective Quantified Goal” destinato a sostituire l’attuale impegno di 100 miliardi di dollari annui per i Paesi in via di sviluppo. Questo nuovo obiettivo è centrale per supportare le nazioni più vulnerabili e favorire la giustizia climatica, un tema ricorrente nelle COP recenti. Tra gli obiettivi discussi, sarà anche valutato l’avanzamento del primo “Enhanced Transparency Framework,” un sistema per monitorare con maggiore precisione le emissioni e l’implementazione degli impegni presi dai singoli Paesi. Inoltre, la COP29 vorrebbe segnare una svolta nella cooperazione climatica tra le regioni, con il potenziale lancio di programmi condivisi per affrontare i rischi climatici transfrontalieri e la transizione verso energie pulite, come evidenziato nei programmi e nelle sessioni programmate dall’ONU e dai suoi partner. Ma i maggiori leaders mondiali, compresi quelli dei continenti più inquinanti, saranno assenti.
È in corso la Cop29 in Azerbaijan è già non è difficile ipotizzarne il fallimento. E non tanto per quello che risulterà scritto nel documento conclusivo, quanto per la certezza che quegli obiettivi rimarranno uno elaborato su carta al quale ben pochi paesi daranno attuazione. Infatti, i leaders dei maggiori paesi, specie quelli più inquinanti, hanno deciso di disertare la conferenza. Immagino già la frustrazione della delegazione statunitense, il secondo paese al mondo per emissioni climalteranti, impegnata nelle discussioni e nei gruppi di lavoro, sapendo già che, tra un paio di mesi, il neoeletto presidente Trump, cancellerà tutto il lavoro fatto a partire dalla uscita degli USA dall’Accordo di Parigi. Così come, temo, che l’assenza di Ursula Van der Leyen dalla Conferenza nasconda, in realtà e al di là delle giustificazioni, la volontà già desumibile da altre dichiarazioni, di dare un colpo di freno alla realizzazione del Green Deal.
Del resto, le Conferenze delle Parti (COP) sul clima hanno ottenuto sempre risultati differenziati. Da un lato, ci sono stati progressi significativi, come l’Accordo di Parigi del 2015, che ha stabilito obiettivi globali per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Inoltre, COP26 a Glasgow ha visto impegni per ridurre l’uso del carbone e aumentare i finanziamenti per l’adattamento climatico. E alla COP28 si è dichiarata la volontà di abbandonare l’utilizzo di fonti energetiche fossili. Obiettivi, tutti, neanche parzialmente raggiunti. In molti ritengono che i progressi siano troppo lenti e che gli impegni presi non sono sufficienti per affrontare la crisi climatica in modo efficace. Ad esempio, il primo “Global Stocktake” di COP28 ha evidenziato che i progressi sono ancora troppo lenti in tutte le aree dell’azione climatica.
Quindi, mentre le COP hanno portato a importanti accordi e impegni, la loro efficacia nel raggiungere gli obiettivi climatici rimane una questione aperta, figuriamoci ora, al tempo di una COP29 fortemente delegittimata e nonostante l’urgenza della crisi climatica. Nonostante alcuni progressi, la percezione generale è che le azioni intraprese non siano sufficienti per evitare i peggiori impatti del cambiamento climatico. Questa mancanza di impegno coerente rende difficile raggiungere gli obiettivi globali di riduzione delle emissioni.
D’altro canto, anche i risultati degli incontri internazionali volti a risolvere i conflitti in Ucraina e a Gaza appaiono limitati o insufficienti. In Ucraina, i negoziati tra le potenze occidentali e la Russia sono complessi e incontrano ostacoli dovuti a interessi contrastanti, alla crescente militarizzazione e all’assenza di compromessi. E le prospettive di un cessate il fuoco stabile o di un accordo di pace sono tuttora incerte. Nel caso di Gaza, gli sforzi di pace affrontano ostacoli diversi ma altrettanto radicati. La situazione coinvolge questioni storiche, territoriali e religiose che alimentano il conflitto israelo-palestinese da decenni. Gli incontri sponsorizzati dall’ONU e dai Paesi arabi non hanno finora portato a una de-escalation duratura, e l’inasprimento delle ostilità continua a mettere in pericolo civili da entrambe le parti. Le sfide comprendono la mancanza di fiducia reciproca e il difficile bilanciamento tra interessi politici e religiosi, che limitano la possibilità di soluzioni condivise.
Anche il fallimento di questi incontri può essere attribuito alla complessità delle questioni territoriali e di sicurezza, alla mancanza di compromessi accettabili per tutte le parti coinvolte e a dinamiche geopolitiche che superano spesso gli strumenti diplomatici attualmente disponibili.
Mi sono interrogato su queste difficoltà nel raggiungere accordi internazionali su questioni complesse come la fine delle guerre e il contrasto ai cambiamenti climatici e ritengo che i fallimenti derivano da vari fattori che provo ad elencare senza pretese di esaustività e, soprattutto, senza saperli mettere in un ordine di prevalenza. Compito che lascio a Voi.
Interessi nazionali divergenti: ogni paese ha i propri interessi economici, politici e strategici che porta le nazioni con economie basate sui combustibili fossili ad essere riluttanti a impegnarsi in riduzioni significative delle emissioni di CO2.
Sovranità nazionale: gli Stati, specie in questi ultimi anni, resistono spesso a cedere parte della loro sovranità a organismi internazionali, il che rende difficile l’implementazione di accordi vincolanti.
Differenze economiche e sociali: le disparità tra paesi sviluppati e in via di sviluppo complicano ulteriormente le negoziazioni. I paesi in via di sviluppo spesso richiedono supporto finanziario e tecnologico per poter attuare misure di mitigazione e adattamento, i paesi cosiddetti sviluppati nicchiano.
Conflitti di interesse: le guerre e i conflitti armati sono spesso alimentati da interessi economici, territoriali e politici che rendono difficile trovare soluzioni pacifiche condivise.
Mancanza di fiducia reciproca: la fiducia tra le nazioni è cruciale per qualsiasi accordo internazionale. Per questo, storicamente, la mancanza di fiducia reciproca ha ostacolato molti tentativi di cooperazione globale.
Fallimento dell’ONU: molti critici sostengono che l’ONU non sia riuscita a risolvere alcune delle sfide globali più urgenti, come i conflitti armati e il cambiamento climatico. I veti incrociati dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza spesso paralizzano l’azione dell’ONU. Anche se è importante riconoscere che l’ONU ha anche ottenuto successi significativi in altre aree, come la promozione dei diritti umani, l’assistenza umanitaria e la salute globale. Ma la complessità delle questioni globali richiede cooperazione e impegno costante da parte di tutti gli stati membri.
Questi fattori, credo, creino un contesto complesso in cui è difficile raggiungere un consenso globale. António Guterres ha parlato di “fallimento di leadership” in diverse occasioni, spesso in riferimento alla mancanza di azioni sufficienti per affrontare il cambiamento climatico. Ad esempio, durante la COP26 a Glasgow nel 2021, ha sottolineato che i leader mondiali non stavano facendo abbastanza per mantenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C, definendo questa mancanza di azione un “fallimento di leadership“. Questa dichiarazione riflette la nostra frustrazione per il ritmo lento dei progressi globali e la necessità di un impegno più forte e deciso da parte dei governi di tutto il mondo.
Per superare le sfide globali come i conflitti armati e il cambiamento climatico è necessario, quindi, un approccio integrato e collaborativo. Per evitare il fallimento degli accordi internazionali, si potrebbero adottare soluzioni che promuovano maggiore trasparenza, impegno politico, e partecipazione collettiva. Provo ad elencare alcune strategie chiave.
Rafforzare il quadro giuridico internazionale: per affrontare i conflitti, è fondamentale rafforzare il ruolo di organismi come le Nazioni Unite e la Corte Penale Internazionale, assicurando che le violazioni dei diritti umani e le aggressioni militari siano affrontate con sanzioni rapide e certe. Un meccanismo simile potrebbe funzionare anche in ambito ambientale, con accordi che introducano norme più stringenti e applicabili universalmente per il controllo delle emissioni e l’adozione di politiche verdi. Il “Loss and Damage Fund” stabilito alla COP27 è un esempio recente di uno strumento concreto per affrontare i danni climatici, ma richiede meccanismi di controllo più forti.
Incrementare la cooperazione multilaterale e il dialogo inclusivo: la partecipazione attiva di tutte le parti coinvolte – compresi attori non statali, come organizzazioni non governative e comunità locali – può migliorare il processo decisionale, come avviene con l’Accordo di Parigi, che coinvolge anche città e aziende. In ambito di conflitto, il dialogo inclusivo può ridurre le tensioni e creare piattaforme di fiducia tra le parti. Iniziative come le conferenze di pace con mediatori indipendenti hanno dimostrato successo in altri contesti e potrebbero essere applicate anche ai conflitti attuali.
Monitoraggio e trasparenza degli impegni: l’implementazione di sistemi di monitoraggio imparziali e verificabili (come il sistema Enhanced Transparency Framework per le emissioni climatiche) potrebbe aiutare a garantire che gli impegni siano rispettati. Allo stesso modo, nelle zone di conflitto, missioni di monitoraggio possono assicurare il rispetto delle tregue e degli accordi di pace, prevenendo il rischio di escalation.
Maggiore finanziamento per la resilienza e l’adattamento: per i cambiamenti climatici, è fondamentale finanziare iniziative di resilienza e adattamento per i Paesi più vulnerabili, come previsto dal Green Climate Fund. In contesti di conflitto, invece, un supporto finanziario per la ricostruzione e lo sviluppo economico può prevenire il ritorno a situazioni di tensione, migliorando il benessere delle popolazioni coinvolte e incentivando la stabilità a lungo termine.
Promuovere la responsabilità e il coinvolgimento delle aziende private: le imprese sono attori chiave sia nei conflitti che nelle questioni ambientali. Iniziative come il Carbon Disclosure Project incoraggiano le aziende a ridurre le emissioni, mentre sanzioni e pressioni sociali possono dissuaderle dal finanziare o sostenere attività che alimentano guerre o crisi ambientali.
Formazione e informazione mirata per i leader: i leader politici e aziendali possono trarre beneficio da programmi di formazione che li rendano più consapevoli delle dinamiche internazionali, della sostenibilità e della giustizia climatica. La Leadership for Sustainable Development Initiative, per esempio, cerca di formare leader aziendali ed esecutivi con competenze etiche e sostenibili, mirate ad allineare le scelte aziendali con gli obiettivi climatici e sociali.
Promozione di modelli di comportamento sostenibili: campagne pubbliche di sensibilizzazione, spesso sottolineano quanto sia importante l’impegno individuale e collettivo per ridurre l’impatto ambientale. Diffondere consapevolezza aiuta a creare una cultura che spinge governi e aziende ad adottare politiche più sostenibili grazie alla pressione pubblica.
Ma quelli che considero più importanti sono gli impegni per l’ educazione e la consapevolezza: educazione e consapevolezza sono fondamentali sia nella risoluzione dei conflitti sia nella lotta contro il cambiamento climatico. Entrambi richiedono un approccio a lungo termine che possa promuovere comportamenti sostenibili e costruire una cultura di pace e rispetto ambientale.
Educazione alla pace e al dialogo: introdurre nelle scuole programmi di educazione alla pace e al dialogo interculturale aiuta a costruire una generazione futura più consapevole e meno incline ai conflitti. Alcuni studi dimostrano che l’educazione alla risoluzione dei conflitti è efficace per ridurre la violenza e promuovere la coesione sociale e la consapevolezza ambientale e climatica. La consapevolezza del cambiamento climatico e dei suoi impatti va promossa a tutti i livelli della società. Programmi di educazione ambientale possono aiutare a ridurre i consumi non sostenibili e incoraggiare stili di vita più rispettosi dell’ambiente. La “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” promuove attivamente questo approccio attraverso iniziative educative, consapevole che la sensibilizzazione dei cittadini può accelerare il raggiungimento degli obiettivi climatici .
L’educazione e la consapevolezza possono quindi contribuire a una transizione verso modelli di comportamento più pacifici e sostenibili, riducendo le tensioni geopolitiche e promuovendo la giustizia climatica. La chiave è integrare queste dimensioni a livello educativo, mediatico e istituzionale, in modo che diventino parte integrante della società. Una popolazione informata è più propensa a sostenere e partecipare a iniziative di cambiamento e a sollecitare i decisori politici su questo tema.
Queste strategie sono progettate per affrontare le sfide principali, come la fiducia tra le parti e il rispetto degli impegni. Richiedono però il sostegno di attori potenti e la volontà politica di impegnarsi a lungo termine, obiettivi difficili ma essenziali per il successo degli accordi internazionali in entrambe le aree. Affrontare questi problemi richiede uno sforzo collettivo e un impegno a lungo termine da parte di tutti i settori della società.
Giuseppe d’Ippolito